Amarcord Azzurro: Martin Pavlu

Amarcord Azzurro: Martin Pavlu

Martin Pavlu debuttò in maglia Azzurra a sedici anni, la tolse a trentacinque partecipando a dodici Mondiali tra Gruppo A e B e tre Olimpiadi invernali. Con questa intervista racconta la sua lunga carriera in Azzurro.

Lei debuttò con la maglia azzurra, segnando anche un goal, nel dicembre del 1978 a Lugano contro la Svizzera B (gara persa 8-3) all’età di sedici anni. Il suo talento venne preso in considerazione molto presto.

Sì, sono entrato presto nel giro della Nazionale, in quegli anni ho giocato parecchie amichevoli e il primo Mondiale a cui partecipai fu quello del 1982 a Tampere.

Nel 1981 Lei partecipò alla preparazione premondiale con la Nazionale guidata da Chambers, il quale la escluse dalla lista dei 23 giocatori che presero parte al Mondiale Gruppo B organizzato dalla Federazione ad Ortisei, dirottandola a quella juniores impegnata ai Mondiali di categoria di Strasburgo. Rimase deluso o era consapevole che davanti a se aveva dei giocatori con i quali, in quel momento, era difficile competere?

Eravamo rimasti in tre per un posto; io, Kasslatter e Schenk. Schenk, per tutta la durata del raduno giocò sempre in arancione, cioè non aveva una linea ed era fuori dalla lista dei convocati e tutti erano convinti di questo. Chambers chiama me e Kasslatter e ci dice: “Ragazzi devo tagliare voi due, uno di voi due sta a casa”. Alla sera al palaghiaccio incontro il coach che mi comunica che non mi avrebbe aggregato alla squadra; vado al bar e trovo Kasslatter che mi dice: “Complimenti, ce l’hai fatta”, io gli rispondo di essere stato escluso, lui sorpreso ribattè che anche lui era stato escluso. Alla fine ha scelto Egon Schenk e ancora oggi non si sa perché. Io non rimasi deluso, perché mi andava bene disputare i Mondiali Under 20 con mio padre (Jaroslav, ndr).

Quale fu il giocatore che più ammirò in quei giorni e per quale motivo?

Il giocatore simbolo di quella Nazionale era Rick Bragnalo, centro della prima linea, giocatore che aveva giocato per quattro anni in NHL con i Washington Capitals; era un esempio per tutti: lavoratore, giocava per la squadra e dava in ogni partita il 100%. E’ stato il vero trascinatore di quella Nazionale.

A diciannove anni, nel 1982, l’ingresso nel gotha mondiale. Che esperienza fu?

Per me fu un’esperienza traumatica, perché mi resi conto che quello che facevamo noi non era assolutamente l’hockey. Paragonati al livello mondiale, noi eravamo nulli: ci mancava la potenza, la forza, la velocità, l’intelligenza tattica. Fu proprio traumatico vedere quello che realmente era l’hockey, nell’estate successiva, tornato a casa, sono andato in palestra.

Due anni più tardi, alle Olimpiadi di Sarajevo, Lei fu protagonista con un hat trick nel 6-1 ottenuto con la Polonia.

E’ stata una partita memorabile. Noi dovevamo vincere due partite: con la Polonia e la Jugoslavia. Vincendo quelle partite ci saremmo classificammo bene: con i polacchi finì 6-1: eravamo carichi e contenti, invece con gli jugoslavi perdemmo con tre goal di Besic. Non centrammo la qualificazione al girone successivo.

Ma non era tutto rose e fiori. Nella stagione successiva dovette rinunciare alla trasferta in Polonia per paura di essere arrestato, dato che suo padre era scappato dalla Cecoslovacchia vent’anni prima  e chiese asilo politico all’Italia.

In quel periodo era rischioso. Per i cecoslovacchi e per le Nazioni che appartenevano al Patto di Varsavia, ero ancora cecoslovacco e non gli importava della mia cittadinanza italiana o del mio passaporto.

Parlavate mai di questa situazione in famiglia? Se sì, Lei come viveva questa situazione?

Era una situazione che non mi dava fastidio, sapevo che era così e l’accettavo.

Con il Mondiale di Gruppo B del 1987, la Federazione tentò di ripetere l’esperienza del 1981, ma gli esiti furono tutt’altro che esaltanti. Lei, in tutta la manifestazione, segno solo un goal, anche la sua linea risentì dei problemi che affligevano la Nazionale.

Credo che quel Mondiale è stato preparato malissimo: abbiamo iniziato la stagione, in estate, con Killias,  in seguito mandato via; un paio di giorni prima del Mondiale arrivò Chambers che non sapeva assolutamente nulla della squadra, in un primo momento affermò di essere un osservatore, poi vice allenatore, poi impartisce i cambi. C’è stata una confusione totale con, anche, la rivoluzione delle linee nelle prime partite, i giocatori più anziani volevano imporre le loro idee e alla fine abbiamo mancato la qualificazione alle Olimpiadi di Calgary rimediando una figura bruttissima.

L’avvento di Gene Ubriaco decretò il suo allontanamento, per due anni, dalla maglia Azzurra. Da cosa dipese la sua mancata convocazione? Poco feeling con l’allenatore o la predilizione, da parte del coach, per gli oriundi?

Io lascia il raduno, prima dei Mondiali di Jugoslavia, perché ero molto contrariato con lui; l’allenatore aveva problemi anche con altri giocatori, per quanto mi riguardò, io avevo disputato un ottimo campionato in quella stagione, mi aveva spostato in quarta linea, non mi faceva mai giocare, mi sono stancato, gli ho detto quello che pensavo di lui e le nostre strade si sono separate.  

Con Lefley, ad esclusione del Mondiale del 1992, tornò a vestire la maglia Azzurra. Che ricordo ha del coach scomparso tragicamente nel 1997?

Un grande uomo. Una persona che faceva di tutto per i suoi giocatori, i quali venivano messi tutti a loro agio, però pretendeva il 100% e tutti davano il 110%. E’ stato prima di tutto un uomo e tutti giocavano volentieri per lui e questa è stata la sua grande forza. Credo che con lui la Nazionale abbia avuto i suoi anni migliori, dove abbiamo fatto veramente bene, ma soprattutto perché c’era questa persona che tutti seguivano. Non era cattivo o prepotente, ma sapeva cosa voleva.

Con Olimpiadi e Mondiale casalingo, il 1994, può essere considerato l’anno clou per la sua carriera in Nazionale?

Il 1994 è stato un anno veramente fantastico: sono andato a Lillehammer con una squadra molto giovane: c’erano Lino De Toni, Gigi Da Corte, Patrick Brugnoli. Avevamo un mix di due linee esperte e due linee di ragazzi giovani e questo fu molto interessante. In quella occasione centrammo il decimo posto e fu un grande successo in una vera Olimpiade invernale. Credo che chi abbia visto Lillehammer gli rimane nel cuore per sempre: quando l’Italia vinse nella staffetta del fondo, i tifosi norvegesi ammirarono gli Azzurri, anche se furono sconfitti nella specialità che loro amavano di più.  

Nella stagione 1995/96 entrò a far parte del giro Azzurro Larry Rucchin. La tenacia nel combattere il male che lo afflisse fu commovente. Che giocatore e che uomo era Rucchin?

Un giocatore che dava sempre il massimo, forse non così talentuoso come suo fratello che giocava in NHL, però un giocatore che riusciva a dare moltissimo con le quello che aveva. Per un allenatore è importante sapere questo, perché si può mettere in qualsiasi situazione in campo e sai che da lui ottieni quel tipo di lavoro.

La sua carriera in maglia Azzurra si chiuse al termine delle Olimpiadi di Nagano nel 1998 all’età di 35 anni. L’obiettivo era quello di migliorare il nono posto di Lillehammer, ma non venne centrato e l’Italia si posizionò al dodicesimo posto. Oramai per la Nazionale era giunto il momento di un ricambio generazionale.

Era cominciato. Inoltre ci fu l’avvicendamento in panchina con Adolf Insam, dovuto all’incidente che coinvolse Brian Lefley. Sicuramente prima o poi sarebbe arrivato, bisogna capire quando arriva il momento, accettarlo e mettersi da parte. Deve essere il giocatore a deciderlo, non si deve aspettare che lo facciano gli altri. Credo di aver lasciato un buon ricordo, un’Olimpiade è sempre un’esperienza importante e ho ringraziato tutti coloro che mi hanno permesso di farlo in questi anni in Nazionale.

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