Vent’anni senza Bryan Lefley

Vent’anni senza Bryan Lefley

“Milano, 29 ott. (Adnkronos)- Stamane, alle prime ore dell’alba, alle porte di Bolzano, e’ deceduto in un tragico incidente, Bryan Lefley, allenatore della Nazionale Italiana di Hockey su ghiaccio. Lefley, si stava recando a Bressanone per riprendere contatto con la squadra che sarebbe dovuta partire nei prossimi giorni per sostenere alcuni incontri amichevoli con la Slovenia”.

Con queste poche righe l’agenzia di stampa ADN Kronos dava notizia vent’anni fa della scomparsa di Bryan Lefley. Il coach della Nazionale la sera precedente aveva assistito alla partita di European Hockey League tra Bolzano e Dynamo Mosca. Alle 4.45 si schiantò con la sua auto sulla statale del Brennero, nei pressi di Ora, contro un camion proveniente in senso opposto, perdendo la vita a 49 anni.
 Sono trascorsi vent’anni da quel tragico incidente, ma il tempo non cancella il ricordo di un uomo amato da tifosi, dirigenti, giocatori e uomini del suo staff; di quest’ultimi riportiamo il loro ricordo di un allenatore che ha saputo portare la Nazionale italiana a risultati ineguagliabili e ottenere rispetto a livello internazionale.

Adolf Insam (assistant coach di Lefley)

“Lefley era amabile, di compagnia. A lui piaceva stare con il gruppo; quello che ho imparato da lui è lo stare assieme dello staff e come lo coinvolgeva. Ci sono allenatori che se vincono la gloria è la loro, se perdono la colpa è degli altri e questo è un errore, perché lo staff va coinvolto, nel bene e nel male, e stare tanto tempo insieme, non solo con i vice allenatori, ma anche con il medico, l’attrezzista, il team leader, i quali avevano il compito di informarlo se c’era qualcosa che non andava per il bene comune e ottenere i risultati. Lo staff era una cosa, la squadra un’altra. Spesso ci sono relazioni tra giocatori e staff che sono pericolosissime; lo staff doveva essere unito e solidale con l’allenatore e questo lo si ottiene solo coinvolgendoli al massimo e dando ad ognuno la sua importanza.
Lui è riuscito a tirare fuori il meglio dalla generazione degli Orlando, Chitarroni. Il livello dei giocatori della  generazione precedente era migliore, ma come detto prima, chi li ha avuti non li ha saputi gestire. Lefley, oltre alla competenza tecnica, sapeva sceglierli e un’altra cosa che ho imparato da lui è il feeling con un giocatore, soprattutto in Nazionale dove c’è tanta scelta”.

Robert Oberrauch (Capitano della Nazionale italiana dal 1992 al 1998)

“Bryan Lefley credo che ha cambiato ciò che è l’hockey in Italia e ha cambiato la percezione dell’hockey italiano a livello mondiale, perché fino a quel momento, l’Italia era una squadra che cambiava allenatore ogni anno, due (Chambers, Ivany, Kelly, Ubriaco), invece Lefley ha preso per mano il Blue Team e ne ha fatto una squadra; da quel momento la Nazionale non radunava più i giocatori che venivano messi insieme per giocare delle partite, ma era una squadra come se fosse costruita per partecipare ad un campionato, con delle regole, con uno spirito di squadra che prima mancava. La differenza vera lui l’ha fatta con la sua personalità, la sua professionalità e il suo carisma che lo percepivi diverso e che ci ha messo a noi, come Nazionale Italiana in un ranking migliore. L’Italia era una squadra da rispettare che aveva un coach, una persona solida, rispettato anche dai suoi colleghi e nell’ambiente mondiale dell’hockey. Noi eravamo diventati una squadra di hockey seria, abbiamo disputato partite con Russia, Svezia con le quali ce la siamo giocati fino alla fine. Anche come atteggiamento si percepiva che eravamo una Nazionale rispettata anche dai media. Bryan ha portato un altro sistema di vedere le cose: chi gioca meglio scende in pista o chi si inserisce meglio nel suo gioco scende in pista; la differenza tra italiani e italo non è più esistita, nonostante fosse canadese, in un certo senso era più italiano dei canadesi, mentre prima questa situazione non era ben accettata. Era una fortuna, per noi, avere Lefley in Nazionale, perché ha cambiato la carriera di ognuno di noi, della mia sicuramente.
Abbiamo ottenuto degli ottimi risultati: il primo raduno l’abbiamo fatto dopo le Olimpiadi e lui ha cambiato radicalmente: come vice c’era McCourt e Adolf (Insam, ndr) e il suo livello professionale era altissimo. La differenza con gli altri allenatori l’ha percepivo quando certe cose non andavano neanche dette o che erano scontate che dovevano essere così: altri allenatori imponevano le regole, lui no, bastava lo sguardo e lui aveva questo carisma con giocatori maturi, con giocatori affermati e famosi. Abbiamo avuto la fortuna di disputare vari mondiali e le Olimpiadi di Lillehammer con lui e di toglierci soddisfazioni, credo, irripetibili in futuro, perché tutto è cambiato. Però, in quel momento, se non ci fosse stato lui non sarebbe stato la stessa cosa; nonostante noi fossimo abbastanza bravi saremmo stati solo una buona squadra, ma non così buona. “Lasciare il Berna, una società con circa 14.000 abbonati stagionali e quindi lasciare un mercato ricco come la Svizzera voleva dire che veramente lui ci credeva nella squadra italiana e anche in quello che poteva dare o poteva ottenere dalla Nazionale. Ogni tanto, durante il campionato, ricevevo le telefonate di Bryan e l’atteggiamento era accorto, avevo quasi i brividi e guardandomi attorno mi chiedevo dove fosse; lui era famoso perché vedeva tutto. La famosa battuta di Gates Orlando era: “Bryan vede anche quando non c’è”, oppure “Zitto zitto, non pensare, perché Bryan lo sa”. Io ho avuto la fortuna di essere capitano in quegli anni e ci siamo sentiti più volte per parlare della squadra o per questioni organizzative o per sentire un parere. Una telefonata con lui non era mai rilassante; questo rapporto non l’ho più avuto con nessun allenatore, né prima, né dopo; lui aveva tutto sotto controllo. Con Bryan non facevi tante battute, ho avuto la fortuna, come anche Gates, di avere un ottimo rapporto, e gli dicevo: “Bryan, mi hai messo un chip”. Una persona e un allenatore speciale, avevamo il giusto rapporto tra una relativa confidenza e il suo ruolo: “Io sono l’allenatore, tu il giocatore”. Credo che a Bryan la Nazionale di quegli anni, ma non solo, dovrebbe fargli un monumento, oggi dovrebbe essere a capo della Federazione o qualcosa del genere. Prima si parlava del cambio di mentalità: una stagione siamo andati in Canada ad agosto (1992 a Calgary, n.d.r.) con una squadra sperimentale molto giovane composta da Under 23, e anche in quella occasione, giocando con ritmi blandi, non era rilassante oppure durante la giornata di  riposo, se c’era Bryan in giro non bevevi neanche una birra pensando che potesse passare in quel momento, una sorta di sudditanza psicologica. Eravamo ragazzi di un’altra generazione: mentre fino ai Mondiali di Alba di Canazei c’era lo stereotipo del vecchio hockeista, poi siamo passati al professionismo tutto si è combaciato: con attenzione ai particolari, noi giocatori stessi eravamo severi e ferrei su chiunque non seguisse le regole; con Gates e Topatigh assistenti c’era un governo nel governo e questo significava meno lavoro per l’allenatore”.

Gates Orlando (attaccante della Nazionale italiana dal 1989 al 1999)

“Per me è stato il migliore, eravamo amici fuori dal ghiaccio. Era una persona umile, gentile; ti lasciava parlare, voleva conoscere la vita personale di ogni giocatore. Non era solo un allenatore di hockey, per i giovani era come un fratello, un padre. C’era una parte di Bryan molto umana. Ancora oggi mi manca. Il giorno in cui è scomparso è stato il giorno più difficile che ho vissuto”.

Martin Pavlu (attaccante della Nazionale italiana dal 1978 al 1998)

“Lefley era un grande uomo. Una persona che faceva di tutto per i suoi giocatori, i quali venivano messi tutti a loro agio, però pretendeva il 100% e tutti davano il 110%. E’ stato prima di tutto un uomo e tutti giocavano volentieri per lui e questa è stata la sua grande forza. Credo che con lui la Nazionale abbia avuto i suoi anni migliori, dove abbiamo fatto veramente bene, ma soprattutto perché c’era questa persona che tutti seguivano. Non era cattivo o prepotente, ma sapeva cosa voleva”.

Gianfranco Talamini (Team Leader della Nazionale italiana)

“Lefley era un grande tecnico, una persona con grande carisma. Era conosciuto in ambito internazionale, sapeva ciò che voleva. Sapeva quando era il momento di essere seri o di scherzare. Ho un bellissimo ricordo di lui”.

 

L’allora Presidente della FISG, Giancarlo Bolognini, a La Gazzetta dello Sport dichiarò:

“Martedì eravamo stati a pranzo insieme, avevamo parlato del presente e del futuro del nostro hockey, dell’avvicinarsi dell’appuntamento olimpico. Ancora una volta avevo riscontrato in lui grandi qualità tecniche e umane. Entra di diritto nella storia dello sport e non solo per quanto ha vinto: aveva costruito attorno a sè uno staff serio e affiatato, aveva insegnato a molti cosa significa professionalità. Il nostro pensiero va al dolore della moglie e dei figli, ma lui ci manca già molto”.

Antonio Triveri, giornalista de La Prealpina scriveva il 30 ottobre 1997:

“La sua morte lascia un vuoto che nessun altro tecnico potrà colmare. Si è chiusa un’era: l’Italia dell’hockey senza lui non sarà più la stessa cosa”.

Parole sante!

 

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