Ci saluta l’immenso cuore di Dickie Moore

Ci saluta l’immenso cuore di Dickie Moore

Oggi raccontiamo un’altra storia diventata leggenda ancor prima del tempo.
Non parleremo solo delle prestazioni di una icona nel firmamento hockeystico di qualche generazione fa ma dell’espressione più veritiera di questo meraviglioso sport fatta di sacrificio, cuore e costanza: Dickie Moore.

Duro come Parc Extension
Richard Winston Moore, per tutti solo Dickie, nasce nel Gennaio del 1931 nella culla mondiale dell’hockey, situata nella centralissima Parc Extension a L’Ile-de-Montréal in una numerosa famiglia con nove fratelli ed una sorella; la famiglia Moore costruisce nel cortile di casa una pista da pattinaggio per lasciar divertire la nutrita prole nei lunghissimi inverni canadesi, assieme ai numerosi amici iniziando prima a pattinare per poi avvicinarsi all’hockey grazie all’insostenibile presenza dei fratelli.
Dickie rimane estasiato in tenera età dalle dirette radiofoniche degli arcirivali storici dei Maple Leafs emulando le funamboliche scorribande di un certo Gordie Drillon sul ghiaccio scegliendo (incredibilmente) i Leafs come squadra del cuore al cospetto degli Habs, al pari della sorella Dolly, vero punto di riferimento.
All’età di sette anni si rompe la gamba destra in bicicletta, impedendo ai muscoli della stessa di crescere al meglio durante lo sviluppo; il suo migliore amico d’infanzia, Larry Zeidel, anch’egli Nhler ma con meno fortuna, lo trascina con se in lunghissime scorribande sulle prime colline della città quebecois aiutando il giovane Moore sia nella ripresa dell’infortunio, sia nel temprare un fisico robusto e coriaceo sul ghiacco, suo marchio indelebile di fabbrica.

Leafs mancato
All’età di 15 anni viene notato dagli osservatori dei Montréal Royals, team del curcuito giovanile della Québec Junior Hockey League (attuale QMJHL) dove inizia firmando un semplice try-out con la formazione degli stessi fratelli; al secondo anno scrive col proprio junior team una delle pagine più belle dello sport giovanile canadese, portando la prima Memorial Cup della storia nel Québec.
Da qui nasce la leggenda del finestrino del bus: il giovane Moore viene avvicinato dal talent scout dei Leafs Jo Jo Grabovski per convincerlo a firmare un contratto con Toronto in National Hockey League ma, vista la scena dal finestrino del bus, l’allora scout del leggendario Frank Selke (tale Frankie Orlando) chiama di gran carriera il carismatico boss dei Canadiens per riferirgli l’accaduto. Selke lo va a trovare subito al lavoro, cosa normalissima all’epoca che, lasciati pattini e mazze si andava al lavoro, riesce a strapparlo dalla corte dei Leafs aspettando che finisse il proprio turno alla CPR di Montréal(!) per convincerlo ad accettare la proposta dei Canadiens, spedendo immediatamente il giovane Dickie nella cantera dei Canadiens (due annetti e mezzo) prima del gran debutto in NHL, con tanto di Memorial Cup portata nuovamente nel Québec al primo anno coi junior Canadiens.

Lavoro, lavoro ed ancora Lavoro
La chiamata arriva nel Natale dei ’51 con Dick Irvin a spedirlo in linea con Maurice Richard ed Elmer Lach, dove rimane con gli Habs per 33 uscite, raccogliendo un punto a partita sino all’eliminazione in post-season; la seconda stagione in NHL è poco fortunata con Dickie a fare i conti con un brutto infortunio al ginocchio ed a limitarlo per tutta la stagione, tornando in tempo per la corsa alla Stanley del 1953 con i Canadiens.
Tuttavia il lavoro all’interno dello spogliatoio degli Habs non era tanto facile; Dick Irvin, storico head coach degli Habs per 15 anni, riconosceva le grandi doti di Moore (buonissimo scorer e playmaker) ma in un team che poteva contare su stelle del calibro dei fratelli Richard oppure di Emile Bouchard al pari di Doug Harvey senza dimenticare Bert Olmstead e Bernie Boom-Boom Geoffrion (comprese le stelline Jean Béliveau e Jacques Plante) rimaneva decisamente in secondo piano.
Persa la seconda Stanley consecutiva in gara 7 contro Detroit dopo i famosi Riot Richard, unica sospensione di una partita di NHL per contestazione del pubblico nei confronti dei vertici della Lega, cambia l’aria anche nel pancone dei Canadiens con l’arrivo di Toe Blake, uno dei pochi a credere fermamente nel ruolo dell’instancabile di Dickie, fatto di lunghissime pattinate da un capo all’altra della pista compreso il lavoro duro in balaustra unito ad un infinita voglia di vincere per il team.

Dynasty Canadiens 55-60
L’avvento di Blake è ossigeno puro per Moore che, sulla via del trasferimento per il non-idilliaco rapporto con Irvin, macina punti e diventa guardiaspalle della coppia Rocket-Pocket (Maurice ed Henry Richard) inamovibile, trascinando alla bellezza di 5 Stanley Cup consecutive per la leggendaria dinastia Habs di fine anni ’50, una delle migliori corrazzate mai viste sul ghiaccio NordAmericano fino ai giorni nostri, comprese le sfide eterne e senza tempo contro i fortissimi Detroit Red Wings dell’epoca di Gordie Howe, Terry Sawchuk ed Alex DelVecchio.
Per Dickie l’imperativo è uno: lottare e crederci sino all’ultimo brandello di energia e forza, nonostante gli infortuni e lividi dati dal suo infinito impegno anche all’esterno del mitico Forum di Montrèal, quale portavoce e bandiera del movimento hockeystico Canadiens del tempo; leggenda vuole vederlo giocare con un polso rotto nel ’57 nel periodo nero della Dynasty con Richard, Geoffrion e Béliveau ai box per infortuni a caricarsi sul groppone il proprio team in quella stagione, mentre è memorabile la RS del 1958 con Dickie a vincere il suo primo (di due) Art Ross Trophy con l’allora invidiabile record di 96 punti in 70 uscite (battuto solo dieci anni dopo da Bobby Hull).

Il poco lieto fine
Maurice ‘The Rocket’ Richard appende i pattini al chiodo dopo la quinta Mug portata a casa e nella post-season del 1960 finisce la favola degli Habs in semifinale dai futuri campioni di Chicago, con le prestazioni di Dickie a riaverne della mancanza di Rocket in linea (sostituito dall’amico-fratello Béliveau) mentre le ultime due annate terminano sempre nella stessa maniera, con i Canadiens a mancare il pass per le finali eliminati da Chicago l’anno seguente e nel 1963, dalla scalata dei rivali di Toronto in malo modo.
Moore diviene capro espiatorio dell’eliminazione al cospetto dei rivali dei Leafs, con Selke a non credere più nel suo ragazzo, proponendo il trasferimento in un’altra franchigia per via dell’elevato stipendio che riceveva all’epoca “col tuo stipendo, ce ne pago tre!“(cit. dello stesso Selke).
Dickie, che nel frattempo aveva ottimamente investito il proprio denaro in un’attività di noleggio automezzi agricoli, la famosissima Dickie Moore Rentals, non poteva allontanarsi dalla gestione della propria attività e, complice una sfuriata che conquistò le prime pagine dei quotidiani di Montrèal del tempo, lasciò il team quebecois a malincuore.

Il ‘Punch’ ed il doppio ritiro
Nell’estate del 1964 arriva a sorpresa la chiamata agli Intra-Draft da parte di Punch Imlach, capo-allenatore carismatico di Toronto, a voler portare nuovamente Dickie nel mondo hockeystico: dopo due Stanley firmate Leafs, Moore, alle prese con la sua sempre più redditizia attività unito a qualche incidente di troppo sui mezzi agricoli (rotula compromessa solo qualche settimana prima) sembra accettare di buon occhio la nuova sfida ma i vecchi teammate (all’inizio) e soprattutto la dirigenza Canadiens vedono una sorta di tradimento da parte del loro asso, vista la pessima partenza dell’anno prima.
Con Toronto giocherà quell’anno solo dopo la “benedizione” dei propri compagni (leggenda vuole Olmstead e Béliveau a farlo accettare) ma con i suoi Leafs, tifosissimo da sempre, riesce solo ad arrivare alle semifinali del ’64 (eliminati dagli Habs) e conseguente ritiro a malincuore per i sempre più incombenti problemi alla rotula martoriata, compreso il coccige rotto a metà RS, parlando da figlio allo stesso Imlach per evitare problemi di spogliatoio legati sia al rendimento sia agli acciacchi.
Appeso i pattini al chiodo, dopo due annetti di lontananza arriva una telefonata a cambiargli i piani in tavola: il suo nome spunta fuori nell’expansion-draft del 1969 quando i neonati St.Louis Blues, lo chiamarono per un posto nel team del Missouri. Vista la distanza e la sempre più numerosa famiglia, Dickie inizialmente sembra riluttante all’idea (gioca una volta a settimana in un team amatoriale di Montréal) cede alla passione e si carica di forza e coraggio (paga un goalie tutto per se come sparring-partner) affrontando nuovamente la sfida hockeystica incitato dalla famiglia e persino dai clienti(!), a voler rivedere Moore sul ghiaccio, riuscendo a conquistare le finali di Stanley l’anno stesso con i Blues guidati da un giovane Scotty Bowman in panca.

Saluti, riconoscenze ed eredità
L’avventura splendida in quel di St.Louis termina dopo solo una cinquantina di partite e Dickie, dopo 6 Stanley in 800 uscite in NHL tra RS e Play-Off per 700 punti tra reti ed assist torna nella natia Montréal, continuando l’attività sempre più redditizia nel rental da business-man, con ottimi profitti (compreso il prestigioso Arundel Golf Club) entra con la Classe del 1974 nella Hall Of Fame di Hockey mentre nel 1997 “The Hockey News” lo colloca al numero 32 nella Top-50 giocatori di tutti i tempi. I Canadiens nel 2005 ritirano la celeberrima casacca #12 appartenuta a lui ed Yvan Cournoyer prima della morte, avvenuta sabato scorso nella sua città natale.

Con Dickie ci saluta un altro bellissimo pezzo di storia dell’hockey, mondo fatato dove veri eroi che spesso emergono dopo tanto, tantissimo lavoro nell’ombra, ci raccontano di gesta, dettagli e momenti indimenticabili per gli amanti dello sport più bello del mondo.

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