HockeyTimeInItaly: Joe Bertagna

HockeyTimeInItaly: Joe Bertagna

di a.te.

“Dopo essermi laureato ad Harvard – ricorda Joe Bertagna – avevo cominciato ad insegnare Storia Americana in un liceo ma mi annoiavo tremendamente. Un giorno, al telefono Paul Giandomenico, che era stato mio avversario, con la maglia della Boston University, nel campionato NCAA, mi disse che stava per venire a giocare a Cortina. Scherzando gli chiesi se non c’era la possibilità di trovare un posto anche per me. Dopo qualche giorno Paul mi chiamò, dicendomi che il loro portiere si era infortunato. Mollai subito la scuola e dopo 10 giorni ero in Italia”. Così, quasi per caso, Bertagna si trovò a difendere la gabbia dei Dinosauri. “In realtà, quando arrivai, le cose non furono così come Paul me le aveva prospettate. La società pensava di mandarmi all’Auronzo”. Durante il precampionato, svolto in Svizzera, Austria e Francia, Joe dimostrò le sue capacità, fino a guadagnarsi la conferma da parte di società e pubblico “Cominciai a giocare bene e così li convinsi. Addirittura i tifosi cominciarono a paragonarmi a Jack Siemon”. Il Cortina di quegli anni era una squadra fenomenale in grado di vincere 13 campionati in 17 anni “Mi ricordo i fratelli Da Rin, Gianfranco che era il nostro capitano, ed Alberto. Poi Fabio Polloni, che adesso allena ad Alleghe, Mario Lacedelli, il mio back-up, che purtroppo è venuto recentemente a mancare, e Ruggero Savaris, che ho ritrovato alle Olimpiadi di Lillehammer”. Avversario di quella stagione fu il Bolzano “Avevano giocatori come Roberts davvero eccezionali. Siamo stati dietro per tutto il campionato. Negli scontri diretti avevamo pareggiato due volte in casa e perso in trasferta. L’ultima partita era a Bolzano. Avevamo un punto meno di loro. Dovevamo vincere a tutti i costi per diventare campioni d’Italia.” Così avvenne. Il Cortina, mai vincitore, quell’anno, negli scontri diretti, espugnò il Palazzo del Ghiaccio di via Roma per 5-1 “Fu bellissimo, ho ancora l’articolo dell’Alto Adige appeso nel mio studio. Fra l’altro io e Paul, che fu il nostro miglior realizzatore con 40 goal, ottenemmo 2000 dollari di premio scudetto”. In estate il ritorno in America, con la convinzione che difficilmente si sarebbe potuta ripetere un’esperienza tanto esaltante “Era stato tutto così perfetto, che avevo paura non si potesse replicare. Comincia, inoltre, a pensare ad altre cose per il futuro”. E così, la stagione successiva, Bertagna indossò la maglia dei Milwaukee Admirals in AHL, diventando, a campionato in corso, allenatore dei portieri. “Ho capito che ciò che mi piaceva di più era allenare. Ho fondato così una scuola per portieri che oramai esiste da 30 anni e ho lavorato per varie squadre. Sono stato con i Bruins dal 1985 al 1991 e poi ancora nel 1993/94. Con il Team USA nel 1994 alla Canada Cup e alle Olimpiadi”. Ricordi dell’hockey italiano? “C’erano tanti buoni giocatori. Tra gli altri David Conte (ora capo scout dei NJ Devils) ad Auronzo, Bob Read e Mike Hubbert ad Asiago, un certo Courtemanche a Milano e poi ricordo un giovane attaccante italiano molto bravo: Adolf Insam. Come portieri ricordo Simpson del Merano. Una volta, i tifosi esposero uno striscione con scritto Ma quante mani ha Simpson? perché parava davvero tutto”. Da oriundo, nessuna tentazione di tornare per giocare in nazionale? “In quei tempi si ricominciava a parlare di far giocare nel Team Italy i ragazzi che avessero doppio passaporto. I miei erano originari di Lucca. Non ci fu, però, nessuna richiesta ufficiale da parte della Federazione”. Una vita dedicata ad allenare i portieri “Il migliore che ho allenato è stato Mike Richter dei Rangers. E’ stato allievo della mia scuola e poi l’ho allenato per la Canada Cup. In previsione penso che Rick Di Pietro sarà uno di cui si parlerà molto”. Il ruolo di goalie in Italia è di solito appannaggio di stranieri ed oriundi, come si potrebbe far crescere giovani portieri italiani? “Bisognerebbe farli giocare ad alti livelli già a 15 anni, svolgendo poi anche una preparazione specifica. Mi ricordo che quando Sator era allenatore in Italia, mi chiamò per fare degli stage”. Un hockey sempre più veloce, ma? “Adesso i giocatori sono meglio preparati fisicamente, ma non so se conoscono l’hockey più di quanto lo conoscevamo noi. Tutti si concentrano solo sulla vittoria e sul successo personale ma non credo che quando avranno 50 anni, si ritroveranno a giocare con gli amici, come facciamo noi. Adesso ci sono troppi programmi, troppi viaggi, troppo di tutto …ma poco entusiasmo e soprattutto poca voglia di divertirsi giocando”. Divertirsi giocando, …forse questa è la risposta.

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