Amarcord Azzurro: Gino Pasqualotto

Amarcord Azzurro: Gino Pasqualotto

L’hockey dei nostri giorni ha poco in comune con quello giocato negli anni ’70 e ’80. A quei tempi si praticava un gioco rude, il quale spesso finiva in risse che mandavano in visibilio il pubblico che riempiva i palaghiacci. Uno dei maggiori esponenti, di scuola italiana, di quegli anni fu sicuramente Gino Pasqualotto, un difensore arcigno che sapeva farsi rispettare sia sul ghiaccio che fuori; un uomo che ancora oggi riscuote consensi e affetto dai tifosi, sia che fossero stati avversari o suoi sostenitori; una vita trascorsa nelle fila del Bolzano, ma anche undici anni di presenze Azzurre (132 in totale). Con la Nazionale prese parte anche ad un Mondiale Gruppo A (1982) e alle Olimpiadi di Sarajevo del 1984.

Pasqualotto iniziò la sua carriera con il Blue Team nel settembre 1975 affrontando la Germania Est. L’ex difensore ricorda, ancora oggi, cosa significò per lui vestire la maglia Azzurra: “Andare in Nazionale a diciannove anni fu un’esperienza incredibile. Un emozione più che altro. Ma la Nazionale stava vivendo una fase della sua storia interlocutoria, con continui saliscendi tra il Gruppo B e quello C: “Onestamente quello era il nostro livello, la Nazionale era un premio; non eravamo così forti da poter competere con tutte le squadre. Andare in Nazionale era il massimo in quegli anni; certo, eravamo bravi, battevamo la Francia, la Svizzera, l’Olanda, ora vedo che sono Nazionali importanti. Al nostro livello le nostre belle figure le abbiamo fatte”. Se la Nazionale era un premio, non sempre tutti potevano goderne; spesso i giocatori erano costretti a rinunciare ad una convocazione per un Mondiale a causa del lavoro: “Certo – afferma l’ex terzino -. Io ebbi la fortuna di avere mio padre che era il mio primo tifoso e mi dette la possibilità di andare; altri miei compagni di squadra lavoravano. Poi subentrarono gli italocanadesi, l’allenatore canadese e cambiò tutto: c’erano i primi “sindacalisti”: erano Tomassoni e Corsi: tutto per gli “italos”, niente per gli italiani”. Gli oriundi e il coach canadese, appunto; i primi vennero inseriti alla fine degli anni ’70. Con l’arrivo di Chambers il numero venne incrementato. Una politica della Federazione sulla quale il bolzanino ha una sua idea: “Secondo me in quegli anni la Federazione aveva bisogno di soldi, per procurarseli era necessario ottenere dei risultati e per conseguirli c’era bisogno degli oriundi che, però, erano mercenari e giocavano per il Dollaro, loro erano avvezzi dire: “Another Dollar, another day”; per loro giocare in Nazionale o in un’altra squadra non cambiava niente. C’erano giocatori in Italia, che non hanno avuto la fortuna di vestire la maglia della Nazionale, più forti di alcuni oriundi”. Gli “italos” permisero di fare alla Nazionale italiana il salto di qualità con la vittoria del Mondiale del 1981 di Ortisei. Pasqualotto era uno dei giocatori di scuola italiana: “E’ stato incredibile. Vincere a Ortisei, con la Nazionale, in giovane età e giocare bene, perché non era importante fare parte della rosa, ma scendere sul ghiaccio, io non ci credevo. Anche se erano partite normali, sapevo che andavamo in Gruppo A, nell’Olimpo dell’hockey con giocatori incredibili”.

Nel 1982, insieme ad altri quattro giocatori di scuola italiana, venne portato da Chambers in Finlandia. Il difensore bolzanino non avrebbe mai pensato di riuscire ad approdare nell’elite mondiale dell’hockey: “ Io non mi sono mai sentito un personaggio o una persona che è arrivata e forse la gente mi vuole bene per questo. Io sono io, ho giocato a hockey e ho avuto la fortuna di essere stato portato a giocare a hockey: mio padre mi ha dato la possibilità di giocare. In quegli anni gli oriundi guadagnavano soldi, noi giocatori locali non potevamo vivere con l’ingaggio pattuito. E’ stato un traguardo importante, la gioia più bella non era vedere dove ero arrivato, ma quella di vedere le facce di chi credeva in me e mi ha visto in quel palcoscenico”. Nel premondiale del 1983, in un’amichevole con la Cecoslovacchia B Cary Farelli venne toccato duro da un avversario e fu ricoverato all’ospedale di Bolzano, Chambers portò ai Mondiali in Germania ventiquattro giocatori, ma nella lista consegnata alla IIHF lasciò un posto libero, nella speranza di recuperare l’ala destra che bene si adattava ad un suo schema; preso atto che il varesino non avrebbe recuperato in tempo, l’allenatore canadese dovette scegliere tra Pasqualotto e Kasslatter: “In quei giorni il coach doveva inserire un nome nella lista da consegnare alla IIHF,eravamo rimasti in lizza io e “Biz”; per noi era importante entrare in quella lista, perché ogni giocatore riceveva dieci milioni di Lire, come soluzione decidemmo che colui che fosse stato escluso avrebbe ricevuto dall’altro metà del compenso. La scelta cadde su Kasslatter, anche se c’era bisogno più di un terzino che di un attaccante; preso atto della decisione pensai che fosse inutile rimanere in Germania, presi il treno da Monaco di Baviera e tornai a casa. Durante il tragitto sul pullman della squadra, con il quale raggiunsi la stazione, il medico e il massaggiatore provarono a dissuadermi, ma io mi sentì preso in giro e rimasi fermo sulle mie posizioni”. I rapporti tra Chambers e Pasqualotto avevano subìto una prima incrinatura nel premondiale: “Una sera prestai a Manno la mia macchina, lui rientrò tardi in albergo, chi lo vide pensò che fossi io; il giorno dopo Chambers, durante il chiarimento,era intenzionato a spedirmi a casa, nonostante lo stesso Manno ammise di essere lui il colpevole, poi il coach cambiò idea e mi disse che per quella volta andava bene e di andarmi a cambiare, perché alla sera avrei giocato contro la Germania (Ovest, nda)”.

Nel 1984 fece parte della spedizione Azzurra che partecipò alle Olimpiadi di Sarajevo. Ivany dichiarò che preferì Pasqualotto a Tenisi, perché il bolzanino poteva entrare in qualunque momento e fare blocco, specialmente in inferiorità numerica: “Se Ivany mi ha preferito a Tenisi, voleva dire che non c’erano altri giocatori che potevano giocare” conclude lapidario l’ex biancorosso, per il quale l’esperienza olimpica ebbe un sapore particolare: Strano. Il solo fatto di andare a Roma e farsi vestire da Valentino, ti dà l’idea di essere una stella. Arrivati a Sarajevo c’era molto freddo e molta neve, gli spostamenti, il villaggio olimpico. Io e Kasslatter battemmo al calcio balilla i gemelli Mahre (Phil e Steve, ndr): loro campioni di sci, noi una coppia formata da un bolzanino e un gardenese che stavano in camera insieme, e in quell’occasione vincemmo noi; il villaggio olimpico era una famiglia e l’entusiasmo era quello. Trovare dei personaggi importanti, che vedi in televisione e sui giornali, lì vicino è stato bello, mi hanno fatto sentire importante”. La sua carriera in Nazionale si chiuse al termine dei Mondiali del 1986 di Eindhoven. Negli undici anni di Azzurro ha segnato otto reti, uno in particolare gli è rimasto impresso nella mente: “Ai Mondiali di Belgrado del 1978 realizzai un goal contro la Jugoslavia in situazione di tre contro cinque; fermai il disco in zona difensiva, scattai in contropiede e segnai. Di quella partita c’è la figurina sull’album Panini pubblicato in occasione del Mondiale del 1979”.

Degli allenatori della Nazionale ne ricorda uno in particolare, ma come avversario, più che da coach: “Con Alberto (Da Rin, ndr) il rapporto è stato di amore-odio. Lui mi ha sempre rispettato: io ho giocato contro di lui quando avevo sedici anni, mi ha menato sul ghiaccio, ma mi anche detto: «Bocia, questo ti servirà per crescere». L’hockey era diverso”. Ma uno in particolare non dimenticherà mai, un allenatore che ha dato il suo personale contributo anche in Azzurro: “Nel mio cuore c’è Jaroslav Pavlu, lui mi ha preso, mi ha portato a giocare a hockey; l’ho avuto in Serie A con me, abbiamo vinto dei campionati. Una grande persona con la quale, ancora oggi, sono in contatto”. Pasqualotto chiude la sua intervista parlando degli avversari incontrati nella sua lunga carriera e della durezza degli scontri: “Ho cento punti in faccia, ho perso i denti, ho il naso in plastica, ma era dovuto ad incidenti di gioco. Con le protezioni, oggi le botte sono solo una forma di spettacolo. Una volta avevi rispetto per l’avversario; c’era il Manno di turno da andare a prendere e lo stesso Manno mi diceva: “Fuck Gino, why you?” io lo tenevo e lui stava lì con me, se lo lasciavo andare era pericoloso per qualche mio compagno. In Nazionale, a quei livelli, sono tutti forti. Cattivi non ce n’è, ai Mondiali devi giocare con certe regole. Le amichevoli più difficili erano quelle con la Francia, perché non ne finivamo una, inoltre con i francesi non abbiamo mai avuto feeling, ma anche con gli svizzeri è sempre stata una guerra. Ci chiedevamo perché dovevamo fare quelle amichevoli se poi non finivano mai le partite. Di botte ne ho prese, ne ho date; l’avversario più duro lo devo ancora incontrare, gli altri li ho sistemati tutti”.

Ieri, come oggi, Gino Pasqualotto rimane un guerriero duro, ma rispettoso.

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