Amarcord Azzurro: Giampiero Branduardi

Amarcord Azzurro: Giampiero Branduardi

Giampiero Branduardi fu parte della linea ABC, una linea esplosiva che fece faville non solo a Milano, ma anche in Nazionale. Nella sua lunga carriera in Azzurro, iniziata nel 1953 e chiusa nel 1967, ha vinto un Criterium d’Europa (l’attuale 1a Divisione Gruppo A), ha partecipato a due Olimpiadi, tre Mondiali e quattro gare di qualificazione. Con l’ex attaccante ripercorriamo i momenti salienti.

14 novembre 1953: una data qualsiasi per molti, non per Giampiero Branduardi, il quale esordì in Nazionale all’età di 17 anni nell’amichevole contro l’Austria, conclusa 3-1, che battezzò ufficialmente il nuovo impianto di Bolzano.

Il mio esordio è andato abbastanza bene, sebbene fosse la prima partita ho ricevuto i complimenti dai dirigenti: non ero un campione, ma ho fatto del mio meglio e non ho sfigurato. 

Una settimana più tardi, a Milano, l’ex attaccante realizzò la prima rete in Azzurro nell’amichevole contro la Germania Ovest: l’Italia in vantaggio 5-1, subì la rimonta dei tedeschi che raggiunsero il pareggio al 51’ con Fritz Poitsch, tuttavia, come scrisse Luigi Grassi sulle colonne de La Gazzetta dello Sport “c’è voluto il goal della recluta Branduardi che raccoglieva un disco di Crotti il quale si era bevuto tre avversari per darci, col sesto gol, la vittoria”.

Anche quella è stata una soddisfazione che ha riempito il cuore di gioia e regalato emozioni.

Branduardi era avvezzo ad essere, sportivamente parlando, precoce: tra i senior aveva debuttato a soli 14 anni. E’ lui stesso a svelare il segreto di come ha raggiunto tale traguardo:

Giocavo nella Bocconi, finito l’allenamento dopo di noi scendevano sul ghiaccio i Diavoli Rossoneri di Umberto Gerli e Luigi Mattavelli, tutta gente che aveva negozi o uffici e tante sere mancava qualcuno; io stavo lì seduto a guardarli, loro mi invitavano a giocare. E anche se non toccavo il disco, correvo; col passare del tempo ho iniziato i primi tocchi e a migliorare. Gli altri miei compagni di squadra, invece, finito l’allenamento se ne andavano a casa.

Gli anni ’50 segnarono un periodo d’oro per l’Italia che vinse tre Criterium d’Europa, partecipò alle Olimpiadi di Cortina, tornò a disputare un Mondiale Gruppo A nel 1959 dopo vent’anni.

Era un bel hockey, l’area di offside al centro obbligava a creare gioco per superare le linee, oggi il portiere lancia il disco verso la linea blu e chi lo raccoglie lo spedisce negli angoli dove vanno a fare mucchio. Una volta era raro che capitasse. Inoltre avevamo Ernesto Crotti, un centro che non c’era da nessuna parte in Europa con le sue capacità, era il miglior centro dribblatore: io e Giancarlo Agazzi passavamo il disco a lui, faceva i suoi numeri, quando ricevevamo nuovamente il puck a nostra volta andavamo a segnare. Noi tre in attacco abbiamo segnato tanto: ho calcolato una media di tre goal a partita


Una Nazionale che utilizzò i primi oriundi, tanto che essere nominata “Canada Junior”

Premetto che io sono sempre stato contrario agli stranieri. In Nazionale ce n’erano cinque o sei, però loro non hanno risolto i problemi, ai quali facevano spesso fronte gli italiani. Noi eravamo pochi e la Federazione ha dovuto inserire questi oriundi. Con loro c’era un rapporto normale, eravamo amici come quando giocavamo nel club. Mai avuto discordie.

Per la prima volta nel 1956 i sovietici parteciparono ad un’Olimpiade. L’Italia li affrontò una settimana prima dell’inizio dei Giochi in amichevole perdendo 10-2.

Ci fecero una grande impressione, faticammo a tenere il gioco e a curarli, perché erano più veloci di noi. Inoltre la mia linea (Agazzi, Branduardi, Crotti, nda) era stata divisa: io ho giocato in seconda, il mio compagno che rivestiva il ruolo di centro nella prima non lo era e questo non mi ha permesso di esprimermi al mio livello; a fine gara mi hanno detto che il lavoro svolto andava bene, tuttavia non ho potuto fare quello che sapevo fare. Alla fine decidevano gli allenatori, anche se negli allenamento eravamo noi che studiavamo il gioco e lo mettevamo in pratica nelle partite.

Una settimana più tardi a Cortina vennero inaugurati i VII Giochi olimpici invernali.

Era una novità, lo consideravamo un riconoscimento per quello che avevamo costruito fino a quel momento; non c’erano delle precise aspettative, pensavamo di classificarci in una buona posizione. Gli arbitri sovietici (Andrei Starovoitov e Nikolai Kanunnikov di Italia-Germania, 2-2 il punteggio finale, nda) ci hanno negato l’accesso al girone delle medaglie, se no ci saremmo classificati nei primi tre/quattro posti. La sconfitta nella partita successiva contro il Canada ci ha demoralizzati; ci siamo detti che eravamo lì per vincere: ci siamo riscattati nel torneo di consolazione durante il quale abbiamo vinto tutte le partite, contro Austria, Svizzera e Polonia, classificandoci settimi, subito dietro alle migliori Nazionali. E’ stata la prima volta che l’hockey era mostrato in televisione, col passare degli anni ha preso piede, ma quando i più vecchi hanno appeso i pattini al chiodo ha iniziato la fase calante.

La seconda Olimpiade a cui partecipò fu quella del 1964, dove segnò anche due reti, una contro l’Austria, l’altra contro il Giappone.

Siamo andati a Innsbruck poco convinti; eravamo stati ripescati (decisione della IIHF durante il Congresso annuale tenutosi ad agosto 1963 a Crans Montana per raggiungere il numero di sedici partecipanti, nda), però non avevamo più lo spirito combattivo e questo ha limitato le nostre prestazioni.

Ai Mondiali di Praga del 1959, l’Italia si qualificò alle Olimpiadi di Squaw Valley, ma i risultati ottenuti non convinsero il CONI che negò la partecipazione agli Azzurri. Una decisione che diede inizio al declino del movimento.

Un po’ sì. Il declino definitivo avvenne nel 1968, quando, dopo una lunga preparazione in Nord America, che aveva lo scopo di maturare esperienza contro avversari più forti, al nostro ritorno in Italia ci fu comunicato che non avremmo partecipato alle Olimpiadi, perché i risultati ottenuti nelle amichevoli non erano all’altezza delle aspettative. In quel momento ho deciso di lasciare la Nazionale, perché avevamo dato tanto e avremmo voluto ricevere qualcosa in cambio.

In Nazionale ha avuto sette allenatori: Pete Bessone, Richard “Bibì” Torriani, Billy Cupolo, Aldo Federici, Slavomir Barton, Luigi Bestagini e Bryan Whittal.

Bestagini, era il più serio. Federici è stato anche allenatore a Milano e lo consideravamo uno di noi. Come detto prima, noi sapevamo cosa fare sul ghiaccio e anche coi giocatori del Cortina eravamo già preposti a determinate linee o situazioni di gioco. Barton non ci ha insegnato nulla di più di quello che già sapevamo; Cupolo è stato un buon allenatore, sapeva giocare a hockey e spiegarlo.

Brandina ha anche un messaggio per gli Azzurri

Auguro loro di tornare in Top Division. Che ci mettano l’anima e che possano raggiungere lo scopo prefissato.

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