(Cortina) – La conclusione della stagione 2014/15 ha segnato il ritiro di due colonne dell’hockey italiano: Michele Strazzabosco e Giorgio De Bettin. Più volte compagni di squadra in Nazionale e in squadre di club (Asiago e Cortina), hanno condiviso anche l’esperienza milanese, sebbene in anni diversi.
Con De Bettin abbiamo ripercorso la sua lunga carriera iniziata in una piccola squadra, lo Zoldo, e terminata in una società dal passato glorioso che sta tentando di rilanciarsi, grazie anche al suo lavoro di Direttore Sportivo, assistant coach e coordinatore del settore giovanile.
Era proprio arrivato il momento di appendere i pattini al chiodo?
E’ sempre difficile trovare il momento giusto. Se penso alla voglia, avrei giocato ancora; forse il momento giusto era due anni fa. La decisione l’avevo presa ad inizio stagione e ho voluto rispettare i miei pensieri, le mie idee.
Hai esordito in Serie A nel 1991 con lo Zoldo. Un Davide contro molti Golia. Ricordi il tuo debutto?
Il debutto non lo ricordo, all’epoca non avrei pensato di giocare in Serie A arrivando da una piccola realtà come Pieve di Cadore, anche se ero stato al Cortina; invece la stagione la ricordo benissimo, perché è stata proprio da Davide contro Golia. Però ci siamo divertiti tanto e ci siamo tolti delle soddisfazioni. E’ stata un bell’inizio di carriera.
Con i fratelli Meneghetti in squadra non deve essere stato difficile imparare a difendersi dagli avversari più aggressivi.
Questo è vero (ride, nda). Ogni allenamento era una battaglia, anche tra di loro. Quella è stata una bella scuola di sopravvivenza.
L’unico punto conquistato in regular season lo Zoldo l’ottenne contro il Fiemme, la tua squadra nella stagione successiva con la quale hai avuto modo di assaggiare il palcoscenico internazionale con l’Alpenliga.
Avevo disputato una buona serie di playout contro il Fiemme, loro mi avevano notato e mi hanno fatto un’offerta, sono andato a Cavalese subito. La squadra era abbastanza debole, però ho avuto l’opportunità di iniziare a giocare in Alpenliga e ad affacciarmi in campo internazionale.
Dopo una breve parentesi ad Asiago, le buone prestazioni ti portarono al CourmAosta, eliminata in semifinale dal Varese. Fino a quel momento il miglior piazzamento che tu abbia mai raggiunto con una squadra.
Il passaggio al CourmAosta è stato un passo importante per la mia carriera, perché da una squadra di fondo classifica sono andato a giocare in una formazione che giocava per vincere. Ho giocato con grandi campioni: Bill McDougall, Jason Lafreniere, Bill Stewart, Jim Camazzola sono stati stranieri che hanno dato una svolta alla mia vita hockeistica, perché loro hanno sempre voluto che io giocassi nelle loro linee. Sono stato fortunato e ho sfruttato l’occasione che si è presentata. Da lì in poi ho capito che potevo essere un giocatore da Serie A.
Due stagioni ad Asiago, divise tra Serie A e A2, poi il passaggio al Cortina. L’accordo tra gli ampezzani, senza stadio coperto, e la Saima di Di Canossa, in cerca di giocatori italiani, ti permise di sbarcare nella metropoli lombarda.
Quella di Milano è stata un’esperienza fantastica: ero capitano di quella squadra. Milano resta sempre Milano con un pubblico strepitoso. Ho ancora molte amicizie, un’ambiente veramente bello. Giocare a Milano è sempre stato il mio sogno; purtroppo nella stagione successiva con il campionato in Francia, avendo una bambina piccola, per questioni familiari sono tornato tra gli stellati. Sotto un certo punto di vista a malincuore, ma felice dall’altro perché mia moglie è di Asiago, quindi contento di tornare sull’Altopiano vicentino. Però Milano ce l’ho sempre nel cuore.
Come da te affermato, sei tornato ad Asiago nel 1999, anche Lucio Topatigh fece la stessa scelta, dopo aver vestito la maglia del Bolzano. Guidati da Pat Cortina, la cavalcata è impressionante: 42 vittorie consecutive, poi la finale playoff e l’amaro risveglio. Cosa successe a quella squadra nel momento clou del campionato?
Quelle sono situazioni che ti segnano. Abbiamo dominato la stagione, in finale col Bolzano non funzionava niente. L’unica cosa che non è andata bene quell’anno, seppur avendo vinto 42 partite su 45 e con una sola sconfitta alla seconda giornata (5-6 contro il Vipiteno, nda), non abbiamo mai sofferto, non abbiamo mai avuto cali o momenti di crisi per risalire la china e per poter tirare fuori le unghie. Il crollo l’abbiamo avuto in finale, ma era troppo tardi per reagire. Il Bolzano, con la sua enorme esperienza ha vinto lo Scudetto.
Negli anni successivi con gli stellati ti sei rifatto vincendo uno scudetto, due Coppa Italia e una Supercoppa, sebbene i Vipers stessero iniziando ad instaurare la loro “dittatura” sportiva.
Ci vuole anche fortuna nella vita per vincere. Credo che l’Asiago avesse un’ottima squadra, a parte il primo anno in cui abbiamo vinto noi, poi per cinque anni di fila il Milano ha portato a casa lo scudetto. Era una squadra incredibile, ho molti amici con cui ho condiviso la Nazionale e che giocavano a Milano; sono orgoglioso che, quanto meno, in finale gli abbiamo sempre reso la vita dura lottando. Ma abbiamo portato a casa poco.
Dopo Asiago, hai trascorso undici anni a Cortina, anche con gli ampezzani hai vinto qualche trofeo (uno Scudetto e una Coppa Italia) tra qualche alto e basso.
Il Cortina è una Società un po’ diversa, sono ritornato a casa; anche questa scelta è stata motivata da questioni personali. Per me Cortina è sempre stato un sogno, è un sodalizio glorioso grazie anche ai sedici Scudetti vinti. Averne vinto uno qui, il sedicesimo, è una di quelle cose inaspettate. Tuttavia l’altalenarsi di annate positive e negative ha lasciato qualche strascico, nessuno ha colpe, ma non è facile gestire i successi. Nello sport è tra le cose più complicate, però credo che per budget e per altri mille motivi, il Cortina, nonostante tutto, abbia disputato ottime annate, ad eccezione di altri infelici, come quello appena disputato. Fa parte dello sport.
Con la Nazionale hai esordito nel 1993 al Torneo Città di Bolzano, ma ne hai fatto stabilmente parte dal Mondiale 2002. Un debutto in una rassegna iridata poco fortunata considerato l’esito.
Siamo retrocessi. Avevo trent’anni ed ero al primo Mondiale, ero un po’ spaesato, ho giocato, ma era un mondo nuovo per me. Sarò sincero, sono orgoglioso di aver disputato quel torneo, anche se è finita male per l’hockey italiano, ma personalmente è un Mondiale che ricordo con piacere perché è stato il primo.
Segnava anche la chiusura di un ciclo.
Sì, segnava la chiusura del ciclo degli italocanadesi e dei giocatori italiani che hanno scritto la storia recente della Nazionale. Se n’è aperto un altro che ha dato meno risultati, ma a noi tante soddisfazioni.
Negli anni successivi hai partecipato ad altri quattro Mondiali di Top Division e alle Olimpiadi di Torino. Possono essere considerate questi i momenti migliori che hai vissuto in Azzurro?
Assolutamente sì, anche perché abbiamo vinto tre volte i Mondiali di Prima Divisione e ci siamo salvati un paio di volte in Top Division, obiettivi non facili da raggiungere. Il gruppo era bello, unito, eravamo tutti ragazzi che ci conoscevamo da tanti anni, quindi sono state delle belle esperienze.
Domanda classica: nella tua lunga carriera ci sono stati compagni di squadra e allenatori coi quali ti sei trovato meglio?
Sì. Ci sono stati allenatori con cui mi sono trovato meglio ed altri peggio, come anche i compagni di squadra. Se devo fare un resoconto, sono poche le persone con le quali mi sono trovato male. Dico sempre, anche ai ragazzi che seguo, che , nonostante tutto, anche se c’è un allenatore che non ti va bene, qualcosa ti lascia sempre, anche quello fa parte dell’esperienza. Ringrazio anche chi mi ha fatto trovare male, perché mi ha dato lo stimolo e la grinta per fare il passo successivo, migliorare e perseguire un altro traguardo. Anche queste persone restano importanti.
Ora la nuova carriera di Direttore Sportivo. Dagli acquisti di mercato messi a segno finora (Caffi, Fontanive) possiamo affermare che è partita a gonfie vele.
A me i proclami non piacciono mai, preferisco fare i conti alla fine. Vediamo come andrà la stagione, solo allora potremo dire se ho lavorato bene oppure no. E’ una nuova esperienza che avevo già iniziato l’anno scorso ed uno dei motivi per cui ho smesso di giocare è questo. Non volevo ricoprire il doppio ruolo di giocatore e Direttore Sportivo per due anni consecutivi. Spero che questo nuovo incarico mi porti qualche soddisfazione. Voglio rimanere nell’ambiente: desidero andare sul ghiaccio tutti i giorni, anche se non da giocatore, preferisco fare più il tecnico che il dirigente.
Difficile rinunciare al ghiaccio.
Sì, è difficile. A settembre sarà una bella sofferenza vedere gli altri che iniziano e non poter giocare. Giriamo pagina e iniziamo un’avventura nuova, qui, tra settore giovanile e Serie A. L’impegno è quasi troppo gravoso, tuttavia lo faccio con molta passione. Spero possa portare buoni frutti.
La carriera di Giorgio de Bettin