Amarcord Azzurro: Robert Oberrauch

Amarcord Azzurro: Robert Oberrauch

Robert Oberrauch conta nella sua carriera in Nazionale 193 presenze, 8 goal e 34 assist; esordì con la maglia Azzurra il 5 marzo 1986 a Klagenfurt in un’amichevole con l’Austria persa 3-2. Il Blue Team in quegli anni stava subendo un lento ricambio generazionale che coinvolse sia i giocatori di scuola italiana che oriundi; solo qualche mese prima vestì la maglia dell’Italia, per la prima volta, un certo Lucio Topatigh, compagno di squadra e amico, che lo accompagnò nell’avventura, grazie alla quale scrissero, insieme anche ad altri importanti giocatori, la storia del periodo d’oro degli Azzurri e dell’hockey italiano. Tuttavia ad Oberrauch spetta un’altra peculiarità: quella di essere stato, in quegli anni, capitano dell’Italia. La “C” gli venne forgiata sulla maglia da Marco Biasi, Presidente della Commissione Tecnica, e l’ex granitico difensore la seppe onorare in tutte le battaglie sportive che lo chiamarono in causa.

Sin dalla prima partita il reparto difensivo poteva contare sulle prestazioni di giocatori del calibro di Manno ed Oberrauch sottolinea quanto fu importante alla sua crescita:

Parecchio. Anche se a Bolzano, squadra nella quale ho debuttato a quindici anni  in Serie A, giocavo in coppia con Pasqualotto, poi con Norbert Gasser, John Bellio; avevamo una squadra forte e con questi giocatori, già nel club si imparava, al di là di come giocare, l’attitudine vincente o di provare sempre a vincere, perché a Bolzano non ci si accontentava mai di niente di meno che vincere il campionato. Se arrivavamo secondi per noi è sempre stata una sconfitta. Per cui questa mentalità è stata trasferita in Nazionale dove c’erano giocatori molto forti; nei primi anni, ai raduni, c’era qualche timore, successivamente, anche per via dell’età uno diventa, in qualche modo, anche più spavaldo, perché essendo già titolare nel Bolzano, fa meno paura giocare con mostri sacri come Jim Corsi, Bob Manno, Dave Tomassoni e altri che hanno scritto la storia e che giocavano in linea con me nei primi raduni. Un insegnamento importante era la serietà, la professionalità estrema negli allenamenti, nell’alimentazione; eravamo lì per conseguire un ottimo risultato con la Nazionale, non per scherzare, non per provare a giocare, ma ottenere qualcosa di buono. Poi l’abbiamo fatto negli anni avvenire, anche quando sono cambiate le generazioni, sia degli oriundi che degli italiani. Credo che siamo riusciti a portare avanti una mentalità, dove l’Italia ha sempre saputo che ruolo aveva a livello mondiale, ma anche con un certo orgoglio di sapere che noi vendevamo cara la pelle contro chiunque”.

Il suo esordio avvenne in un momento in cui la Nazionale, guidata da Kelly, fu travolta dalle polemiche a causa delle decisioni del coach, il quale, ai Mondiali  di Eindhoven, preferì portare giocatori di esperienza, anziché giovani leve come lui o Luigi Zandegiacomo, con lo scopo di centrare la salvezza e lottare per la qualificazione alle Olimpiadi di Calgary l’anno successivo nel Mondiale per il quale la Federazione avanzò la sua candidatura. Una scelta che lo deluse:

“Quello era il primo anno che ero in Nazionale A, era un anno particolare, perché giocavo in Canada nella Western Hockey League (nei Kamloops Blazers, Seattle Thunderbirds e Moose Jaw Warriors, n.d.r.); sono tornato per partecipare al raduno della Nazionale. In quegli anni c’era una certa mentalità, poi cambiata: meglio un oriundo zoppo che un italiano intero. Ricordo che a quel raduno rimase nella squadra che andò ai mondiali di Eindhoven Guido Tenisi che non era al meglio della forma, e in quel periodo tagliare un oriundo era difficile che capitasse. Con Lefley il sistema venne radicalmente cambiato e nel suddetto anno io fui l’ultimo taglio prima dei Mondiali, la notizia la ricevetti sera prima di partire. Obiettivamente una persona ci rimane male, io tornai in Canada a giocare i playoff (coi Moose Jaw Warriors, ndr). Poco male, perché dall’anno successivo ho militato per diverse stagioni in Nazionale”.

Il suo primo Mondiale fu quello di Alba di Canazei del 1987. Un’edizione sfortunata che mise in luce numerosi problemi:

“Avevamo un mondiale importante, perché valevano come qualificazioni alle Olimpiadi di Calgary. La squadra era un po’ vecchia; c’erano giocatori che avevano scritto un’epoca della Nazionale: c’era Jerry Ciarcia, John Bellio, Cary Farelli, Grant Goegan e Dave Tomassoni. Era un momento in cui non si ebbe il coraggio di ricambiare la squadra, quindi abbiamo sofferto un po’ e abbiamo avuto anche un po’ di sfortuna nella partita con la Francia. Eravamo programmati per qualificarci per Calgary ed è stato un vero peccato, se no avrei partecipato a quattro Olimpiadi”.

Sotto la guida di Ubriaco, la Nazionale si rifece nel 1991, vincendo il torneo in Jugoslavia e Oberrauch segnò un goal:

“Avevo venticinque anni e quello era uno squadrone in cui c’erano anche da Orlando e Manno; io ho avuto l’onore di essere Assistente capitano insieme a Gates, il capitano era Erwin Kostner. Abbiamo vinto i mondiali Gruppo B battendo tutte le avversarie, credo che sia ancora un record, perché anche l’Italia, nel 1981 ad Ortisei, aveva pareggiato l’ultima. E’ stata una soddisfazione enorme, è stato un mondiale dove è andato bene tutto, ogni cosa ha funzionato”.

La vittoria di quel Mondiale classificò la Nazionale alle Olimpiadi del 1992 di Albertville, Oberrauch scese sul ghiaccio con la C di capitano sulla maglia:

“E’ stata la prima volta, in seguito ho continuato ad esserlo per tanti anni; dopo un’amichevole di preparazione alle Olimpiadi, giocata a Selva, Marco Biasi indisse una votazione tra i giocatori più anziani e mi sponsorizzò. All’unanimità venni eletto capitano a ventisei anni, in una squadra che aveva l’età media di trentun’anni e questo fu una grande soddisfazione.
Le Olimpiadi furono le prime e in certo senso le più belle, anche se le altre non furono da meno, soprattutto Lillehammer nel 1994 per le Olimpiadi in sé, il luogo e l’atmosfera che sembrava uscita fuori da un’animazione Disney. I risultati andarono male (ultimo posto, ndr), fortunatamente alle Olimpiadi non ci sono retrocessioni, però ci fu la soddisfazione nel partecipare alla cerimonia d’apertura. Fu emozionante. Anche se durante le Olimpiadi ho vissuto nell’hockey, tranne una volta che sono andato a vedere gli allenamento del salto con gli sci con Topatigh a cui piace, respiri un’atmosfera diversa; nel villaggio olimpico sei insieme ad altri giocatori: ricordo un’occasione in cui eravamo in camera io, Topatigh e Scapinello e nella stanza a fianco c’erano Bykov e Khomutov”.

Al termine della manifestazione Ubriaco venne sostituito da Lefley. Dal ricordo dell’ex difensore traspare un rispetto che è rimasto immutato nel corso degli anni:

“Bryan Lefley credo che ha cambiato ciò che è l’hockey in Italia e ha cambiato la percezione dell’hockey italiano a livello mondiale, perché fino a quel momento, l’Italia era una squadra che cambiava allenatore ogni anno, due (Chambers, Ivany, Kelly, Ubriaco), invece Lefley ha preso per mano il Blue Team e ne ha fatto una squadra; da quel momento la Nazionale non radunava più i giocatori che venivano messi insieme per giocare delle partite, ma era una squadra come se fosse costruita per partecipare ad un campionato, con delle regole, con uno spirito di squadra che prima mancava. La differenza vera lui l’ha fatta con la sua personalità, la sua professionalità e il suo carisma che lo percepivi diverso e che ci ha messo a noi, come Nazionale Italiana in un ranking migliore. L’Italia era una squadra da rispettare che aveva un coach, una persona solida, rispettato anche dai suoi colleghi e nell’ambiente mondiale dell’hockey. Noi eravamo diventati una squadra di hockey seria, abbiamo disputato partite con Russia, Svezia con le quali ce la siamo giocati fino alla fine. Anche come atteggiamento si percepiva che eravamo una Nazionale rispettata anche dai media. Bryan ha portato un altro sistema di vedere le cose: chi gioca meglio scende in pista o chi si inserisce meglio nel suo gioco scende in pista; la differenza tra italiani e italo non è più esistita, nonostante fosse canadese, in un certo senso era più italiano dei canadesi, mentre prima questa situazione non era ben accettata. Era una fortuna, per noi, avere Lefley in Nazionale, perché ha cambiato la carriera di ognuno di noi, della mia sicuramente.
Abbiamo ottenuto degli ottimi risultati: il primo raduno l’abbiamo fatto dopo le Olimpiadi e lui ha cambiato radicalmente: come vice c’era McCourt e Adolf (Insam, ndr) e il suo livello professionale era altissimo. La differenza con gli altri allenatori l’ha percepivo quando certe cose non andavano neanche dette o che erano scontate che dovevano essere così: altri allenatori imponevano le regole, lui no, bastava lo sguardo e lui aveva questo carisma con giocatori maturi, con giocatori affermati e famosi. Abbiamo avuto la fortuna di disputare vari mondiali e le Olimpiadi di Lillehammer con lui e di toglierci soddisfazioni, credo, irripetibili in futuro, perché tutto è cambiato. Però, in quel momento, se non ci fosse stato lui non sarebbe stato la stessa cosa; nonostante noi fossimo abbastanza bravi saremmo stati solo una buona squadra, ma non così buona”.

Un coach, considerato da Oberrauch quasi più italiano degli oriundi. A dimostrazione di quanto tenesse al Blue Team, ad inizio della stagione sportiva in cui perse la vita lasciò la guida del Berna per dedicarsi alla Nazionale a tempo pieno:

“Lasciare il Berna, una società con circa 14.000 abbonati stagionali e quindi lasciare un mercato ricco come la Svizzera voleva dire che veramente lui ci credeva nella squadra italiana e anche in quello che poteva dare o poteva ottenere dalla Nazionale. Ogni tanto, durante il campionato, ricevevo le telefonate di Bryan e l’atteggiamento era accorto, avevo quasi i brividi e guardandomi attorno mi chiedevo dove fosse; lui era famoso perché vedeva tutto. La famosa battuta di Gates Orlando era: “Bryan vede anche quando non c’è”, oppure “Zitto zitto, non pensare, perché Bryan lo sa”. Io ho avuto la fortuna di essere capitano in quegli anni e ci siamo sentiti più volte per parlare della squadra o per questioni organizzative o per sentire un parere. Una telefonata con lui non era mai rilassante; questo rapporto non l’ho più avuto con nessun allenatore, né prima, né dopo; lui aveva tutto sotto controllo. Con Bryan non facevi tante battute, ho avuto la fortuna, come anche Gates, di avere un ottimo rapporto, e gli dicevo: “Bryan, mi hai messo un chip”. Una persona e un allenatore speciale, avevamo il giusto rapporto tra una relativa confidenza e il suo ruolo: “Io sono l’allenatore, tu il giocatore”. Credo che a Bryan la Nazionale di quegli anni, ma non solo, dovrebbe fargli un monumento, oggi dovrebbe essere a capo della Federazione o qualcosa del genere. Prima si parlava del cambio di mentalità: una stagione siamo andati in Canada ad agosto (1992 a Calgary, n.d.r.) con una squadra sperimentale molto giovane composta da Under 23, e anche in quella occasione, giocando con ritmi blandi, non era rilassante oppure durante la giornata di  riposo, se c’era Bryan in giro non bevevi neanche una birra pensando che potesse passare in quel momento, una sorta di sudditanza psicologica. Eravamo ragazzi di un’altra generazione: mentre fino ai Mondiali di Alba di Canazei c’era lo stereotipo del vecchio hockeista, poi siamo passati al professionismo tutto si è combaciato: con attenzione ai particolari, noi giocatori stessi eravamo severi e ferrei su chiunque non seguisse le regole; con Gates e Topatigh assistenti c’era un governo nel governo e questo significava meno lavoro per l’allenatore”.

I ricordi vanno anche al Mondiale del 1994 giocati in casa, da bolzanino, davanti al proprio pubblico e con la “C” sulla maglia:

“Fu molto bello. Dirò la verità, disputare a Bolzano i Mondiali, in un certo senso non sembra di giocarli in casa; è una sensazione strana, specialmente per noi di Bolzano che eravamo in ritiro a Caldaro. Era un anno particolare, avevamo inaugurato il Palaonda, avevamo vinto l’Alpenliga e c’era molta attesa per i Mondiali: abbiamo fatto molto bene. Anche se i Mondiali che ricordo più volentieri sono altri”.

Oberrauch non avrebbe mai pensato di raggiungere tali livelli:

Assolutamente no. Ho avuto la fortuna di vivere gli anni d’oro dell’hockey italiano e del Bolzano, anche come seguito: in quegli anni a Bolzano il palaghiaccio di Via Roma era pieno e al Palaonda lo abbiamo riempito spesso. C’era un gruppo di giocatori che è rimasto insieme per anni, sia a Bolzano, dove come i due russi (Igor Maslennikov e Sergei Vostrikov, n.d.r.), Topatigh, Zarrillo, Orlando e Rosati , che in Nazionale. Sono riuscito ad avere una carriera di cui sono molto soddisfatto, ma ad inizio carriera un giocatore non pensa mai che andrà a giocare alla Globe Arena, a Stoccolma, Italia-Svezia da capitano e lo stadio pieno; quando succede sembra normale. Ci ripensi maggiormente dopo, a carriera terminata, più che nel durante”.

Per la comitiva Azzurra giocare un Olimpiade, conclusa al dodicesimo posto, qualche mese dopo la tragica scomparsa di Lefley, non fu facile:

“A Nagano, secondo me, abbiamo giocato abbastanza male, nonostante Adolf (Insam, n.d.r.) abbia raccolto molto bene l’eredità di Lefley, perché ha fatto un ottimo lavoro e sta continuando a farlo; c’è stata continuità, senza Lefley, il sistema di gioco è rimasto lo stesso. Tuttavia credo che abbiamo giocato male in un’atmosfera non positiva; sono state le Olimpiadi giocate peggio. Ad Albertville, non siamo andati bene come risultato finale, ma abbiamo giocato meglio”.

Le Olimpiadi a cui prese parte Oberrauch furono tre, dopo Albertville 1992 e Nagano 1998, l’ex atleta racconta quelle di Lillehammer:

Quelle sono state Olimpiadi fantastiche. Leggendo le interviste di altri atleti che le hanno disputate affermano che quella di Lillehammer è la più bella. E’ un posto da Olimpiade: con neve alta due metri (aveva nevicato per tre giorni senza sosta), il villaggio olimpico era formato da piccoli condomini di sei appartamenti in legno. Un’atmosfera bellissima; nel mio ufficio ho una foto dell’inaugurazione grande tre metri, è il momento che ricordo con più amore, al di là del risultato, anche se abbiamo giocato bene e ottenuto risultati importanti. Un’atmosfera irripetibile, le stesse Olimpiadi di Torino non sono state la stessa cosa, perché il capoluogo piemontese è una città. E’ stato tutto perfetto. Abbiamo giocato anche nello stadio ricavato nella montagna, particolare”.

La sua carriera si chiuse al termine del mondiale del 1998 in scena in Svizzera:

“Ho smesso di giocare relativamente giovane, a trentadue anni, potevo continuare sia con il Bolzano che in Nazionale, di questo ne parlai anche con Adolf durante i Mondiali, nei quali ho segnato un goal su passaggio di Gates, e prendere la decisione di smettere non è mai facile, anche se quando ho smesso è stato più facile: poco dopo è nato mio figlio e volevo iniziare a scrivere una nuova pagina della mia vita, in un’età hockeisticamente per un difensore abbastanza giovane. I primi mesi ero tranquillo, poi l’hockey mi è mancato talmente tanto per due anni che ho pensato di tornare a giocare, dopo averci pensato per una settimana ne ho dedotto che non sarebbe stata la decisione giusta ed ho cambiato nuovamente idea. Penso che quando un giocatore decide di smettere non deve giocare in nessun altra lega che non sia quella delle vecchie glorie. In quell’anno avevo vinto lo scudetto in finale a Vipiteno, ai Mondiali avevo fatto bene: si deve avere il coraggio di smettere quando sei al top e non in fase calante. Forse, per me, era un po’ presto, ma se ci penso oggi era il momento giusto, anche se in Nazionale mi chiesero di continuare”.

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