Gli avversari dell’Italia: la Gran Bretagna

Gli avversari dell’Italia: la Gran Bretagna

Una sorta di maledizione si è abbattuta sul roster inglese non appena la Federazione ha annunciato la entry list all’inizio di febbraio: in pochi giorni quello che era sicuramente un gruppo competitivo che presentava senza dubbio le migliori scelte possibili si è visto privare di ben cinque key players, tutti out per infortunio: il portiere Stephen Murphy, il difensore Jonathan Weaver e gli attaccanti Matt Haywood, Robert Farmer e Robert Dowd. Con queste assenze obiettivamente le chances di qualificazione della truppa di coach Peter Russel sono calate drasticamente, anche se sarebbe sbagliato considerare gli inglesi fuori dai giochi per la qualificazione. La Federazione punta molto, infatti, sul torneo di Cortina, non tanto per il passaggio del turno, oggettivamente difficile, quanto per preparare il gruppo che deve (il verbo non è casuale e andrebbe scritto maiuscolo) conquistare la promozione in Divisione Ia il prossimo aprile a Zagabria, promozione sfuggita l’anno passato in modo clamoroso a Eindhoven, dove gli inglesi, super favoriti, hanno letteralmente regalato la promozione alla Corea del Sud perdendo l’ultima gara contro la già eliminata Lituania. Coach Peter Russel, un vero e proprio Re Mida a livello giovanile capace di conquistare titoli sia a livello di club che di nazionali, è stato, per così dire, perdonato per la mancata vittoria dell’anno passato, ma sa molto bene che il suo credito non è infinito e le pressioni, di una Federazione che investe molto e pretende un ritorno a livello sportivo, sono notevoli. D’altronde la Gran Bretagna vive da sempre un’ottima situazione a livello di clubs, con un campionato, anche se non di altissimo livello, molto seguito e organizzato, sia a livello di elite che nelle serie minori, riflesso della cultura sportiva esistente nel paese, situazione che però non si riflette a livello di nazionale. Assente dai mondiali di elite dal 1994, peraltro unica apparizione dal 1962, la Gran Bretagna ha partecipato per l’ultima volta alle Olimpiadi addirittura nel 1948, dopo aver vinto quelle del 1936 a Berlino, primo team europeo ad interrompere la supremazia nordamericana, anche se con molti canadesi nel roster. Da quegli irripetibili anni la Nazionale britannica si è attestata ad un livello di seconda fascia con rare apparizioni nel mondiale di élite, appena quattro dal dopoguerra. La causa è da ricercare, secondo una tesi molto diffusa e condivisibile, nell’enorme numero di stranieri, ovviamente soprattutto canadesi e americani, che da sempre occupano gran parte dei rosters delle squadre di Elite League. Senza questi stranieri che elevano il livello dello spettacolo l’hockey non avrebbe il seguito che ha, ribattono dalla lega dei clubs, come un po’ dappertutto più potenti della Federazione nazionale e che fino ad ora hanno sempre dettato legge a livello di norme. E se da un lato la Gran Bretagna è terra di “imports”, dall’altro sono pochissimi i giocatori inglesi che possono vantare esperienze all’estero in campionati di prima fascia: Colin Shields, scozzese classe ’80, arrivò addirittura ad essere draftato da Philadelphia nel 2000, unico britannico di nascita insieme alla leggenda Tony Hand, senza però mai riuscire a giocare una partita in NHL, nonostante diverse stagioni discrete in ECHL, prima di tornare in Europa; Ben O’Connor degli Sheffield Steelers, tornato l’anno scorso in patria, dove è stato eletto miglior difensore e giocatore inglese dell’anno, è reduce da 4 stagioni di successi, più personali che di squadra, in Kazakistan, con Sary Arka e Arlan, che gli sono valsi 2 titoli di miglior difensore del campionato è una eccezione e non casualmente è considerato attualmente il giocatore inglese più forte: difensore moderno e ottimo assist-man, ha affinato molto la sua tecnica alla scuola ex-sovietica. David Phillips dei Manchester Storm ha giocato un paio di stagioni non indimenticabili in ECHL. Qualcuno ricorderà il portiere Stevie Lyle ad Appiano una decina di anni fa, che ha poi giocato anche in Francia. Poco o niente per il resto: una mancanza di esperienza che si riflette soprattutto in Nazionale.

Se il punto di forza dei britannici è la difesa, oltre al già citati O’Connor e Phillips, attenzione anche al compagno di linea Mark Richardson, le note dolenti arrivano dal reparto avanzato, che segna davvero col contagocce: basti pensare che all’ultimo Mondiale i top scorers britannici sono stati O’Connor e Richardson, due difensori, mentre il miglior attaccante, Robert Farmer, assente per infortunio a Cortina, ha messo insieme la miseria di 2 goals. Il capitano Jonathan Phillips è decisamente meglio come assist-man che come realizzatore, Shields segna meno stagione dopo stagione, sentendo il peso delle 500 partite in EIHL e di una logorante carriera e Craig Peacock segna molto nei Belfast Giants, molto meno con la maglia dell’Union Jack.

Nonostante il suo ottimo lavoro con i giovani, sono pochissimi i volti nuovi chiamati da Roussel nel roster britannico:

“La qualificazione olimpica è un torneo con un calendario cortissimo, non c’è assolutamente il tempo di sperimentare qualcosa di nuovo a questo punto, per questo ho preferito convocare quasi tutti i giocatori dello scorso Mondiale, che mi hanno dimostrato di aver capito quale deve essere lo spirito della squadra fuori e sul ghiaccio”

si giustifica Roussel, che scherza anche sugli obiettivi della Nazionale a Cortina:

“Abbiamo esattamente tre obiettivi. Numero uno: fare tutto quello che possiamo per vincere la prima partita. Obiettivo numero due: fare tutto quello che possiamo per vincere la seconda partita e obiettivo numero tre: fare tutto quello che possiamo per vincere la terza partita!”

Per poi tornare serio quando dice:

“Credo che è come se questa fosse una nuova stagione per la Nazionale, dobbiamo cominciare a formare un gruppo che abbia in testa le stesse idee, gli stessi obiettivi e la stessa etica del lavoro”

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