Al Arbour dalle miniere all’Olimpo eterno

Al Arbour dalle miniere all’Olimpo eterno

Esattamente una settimana fa, il mondo hockeystico salutava una delle figure più carismatiche ed amate del nostro meraviglioso sport, un allenatore che ancor prima di divenire immortale era già nella Leggenda, Al Arbour.

Nel modo moderno dove tutto è a portata di click è facile perdersi nei meandri della rete senza cogliere quelle leggere velature che fanno di una persona un mito, di un uomo leggenda e di un team Dinastia.

Carriera da giocatore
Nei primi anni del dopoguerra, il nostro occhialuto Al molla la piccozza ed il casco da minatore inseguendo il suo sogno on-ice, ritagliandosi man mano spazio sino a raggiungere nella elitaria National Hockey League delle Original Six, raccogliendo la bellezza di 4 Stanley Cup portate a casa con Detroit, Chicago e Toronto (due da comprimario); lavoro durissimo e sacrificio unito ad una miopia quasi leggendaria, lo portano a fare quasi 400 partite nelle minors (due titoli con Rochester in AHL,ndr) a cavallo di quegli splendidi anni raccogliendo 700 caps di presenza in NHL tra stagione regolare e playoff, diventando uno dei pochissimi a vincere “The Mug” con tre team diversi, più punti raccolti all’ospedale che a referto ed ultimo giocatore con gli occhiali sul ghiaccio, chiudendo la carriera in quel di St.Louis.

Allenatore-giocatore
Pescato agli expansion-draft del 1967 dai neonati St.Louis Blues al numero 30, l’allora debuttante allenatore Scotty Bowman, riconosce lo spirito d’abnegazione dell’immenso Arbour affidandogli i gradi di Capitano; nei primi tre anni di vita della franchigia arrivano ben 3 finali perse di Stanley Cup (doppio KO Habs e Bruins) ed al quarto anno, complice l’addio poco simpatico di Bowman, Al si ritrova a fare l’allenatore-giocatore nella stagione 70-71, ultima con i pattini ai piedi e prima alla guida di un team.

Dove nasce la leggenda?
In riva al Mississippi non sboccia l’amore e dopo appena due annetti e mezzo, viene messo alla porta salutando il Missouri e viene contattato nell’estate del 1973 dall’allora GM dei NY Islanders Bill Torrey.
In un periodo di fortissima espansione hockeystica con franchigie a spuntare come funghi dalla California a Washington, la mossa di piazzare un secondo team nella Big Apple non convinceva nemmeno gli stessi newyorkesi; prese le chiavi della nuovissima Arena, il Nassau Veterans Center di Uniondale (dismessa proprio quest’anno) il team fatica enormemente nel primo anno sul ghiaccio dei pro.
Arrivato Arbour mette subito le parole in chiaro alla dirigenza Isles: allenamenti e sacrificio sopra ogni cosa, pressione costante sul gioco sui “ragazzi” anche fuori dal ghiaccio, studio metodico degli avversari ed utilizzo alla nausea degli scout per forgiare il suo team, pescando di anno in anno dai draft ragazzotti volenterosi e future stelle quali Denis Potvin, Bobby Nystrom unito ai fenomenali Mike Bossy, Bryan Trottier e Clark Gillies solo per citarne qualcuno.

La rotta tende ad invertirsi nel secondo anno col team sempre più solido e vincente arrivando con la sua filosofia e costanza ai playoff prima dell’apoteosi degli anni ’80; l’anno del Miracle On Ice sportivo (Al aveva sulla sua agenda un certo Ken Morrow,ndr) avviene la svolta in casa Islanders prendendo residenza fissa nelle finali di Stanley per 5 volte di fila portando 4 coppe di Lord Stanley consecutive a Long Island in quella unitamente riconosciuta quale la Dynasty Islanders.
A cadere nell’ordine saranno Philadelphia, Minnesota (allora erano North Stars), Vancouver ed Edmonton ottenendo la bellezza di 19 partite vinte consecutivamente nei playoff (record imbattuto!) prima di cedere nelle finali del 1984 il testimonial ad un’altra grandissima dinastia che muoveva i primi passi on-ice, quella degli Oilers loggata Wayne Gretzky, Mark Messier e Glen Sather.

Ancora una Al
Nonostante altre due buone stagioni sul ghiaccio, Arbour viene trasferito ai piani dirigenziali della franchigia ma, calzati a fatica i panni nel front-office, viene gettato nella mischia nuovamente dallo storico Torrey a metà 1988; arriveranno altre 6 stagioni, portando gli isolani ad un niente dalle finali di Stanley nel ’93, chiudendo l’anno seguente la sua inarrivabile carriera in panca con gli isolani, guidati come nessuno mai nello sport più bello del mondo per ben 19 stagioni e 1499 partite.
Eletto dopo i canonici tre annetti di attesa nell’Olimpo della Hockey Hall Of Fame, ed omaggiato nel 1997 dagli Isles, Arbour inizia a godersi la vita del pensionato sino alla chiamata del 2007 arrivata nel suo cottage in Florida; il suo vecchio amico Ted Nolan lo chiama per “tirare giù dal Nassau Center quel 739 vittorie” e non ci pensa un secondo. Arriva nella sua arena, la sera del 2 Novembre 2007 ottiene alla veneranda età di 75 anni l’ennesima vittoria di una infinita carriera (3-2 contro Pittsburgh) nella 1500ma partita da allenatore degli Islanders e ricordata con tanto di banner (ora trasferito al nuovo Barclay Center di Brooklyn) con 783 vittorie in carriera e secondo solo al maestro Bowman quale HC più vincente in National Hockey League.

Il doloroso addio
Salutato l’ambiente casalingo di New York e tornato a fare il pensionato nel sud della Florida, Al ha sempre avuto al suo fianco la sua compagna Claire anche durante il progredire del morbo di Parkinson e demenza senile in ospedale sino gli ultimi giorni, salutandoci all’età di 82 anni.
Una delle più belle lezioni dell’occhialuto ex minatore nella natia Sudbury che ha trasmesso ai suoi ragazzi, è stato l’infinito amore per questo sport al costo di ogni sacrificio anche quando “i momenti erano difficili e tutto sembra perso…per credere in se stessi nel raggiungere la perfezione sul ghiaccio tanto quanto nella vita…senza mollare mai” dove da vincente l’ha salutata e da eterno noi lo ricordiamo; Buon Viaggio Al.

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