Voilà Bolognini… Non il presidente, il giornalista

Voilà Bolognini… Non il presidente, il giornalista

di Andrea Valla e Marco Depaoli

Michele Bolognini professione giornalista, da anni apprezzata firma sportiva sui quotidiani dell’Alto Adige e su periodici e siti internet dedicati all’hockey ghiaccio, probabilmente uno dei migliori (personalmente il migliore) radiocronista della disciplina. Segni particolari: figlio dell’attuale presidente FISG Giancarlo. Così in questa intervista cercheremo di far uscire un Bolognini inedito, dal tifoso al giornalista fino all’ingombrante parentela famigliare.

Partiamo dalle origini: a Bolzano, città di cui sei originario, è normale appassionarsi di hockey. Ma come è nata la scelta di diventare giornalista sportivo?

Fin da piccolissimo ho avuto una passione enorme per ogni tipo di sport: ero un onnivoro, seguivo tutto e sapevo tutto. Dal calcio al basket, dal tennis al ciclismo. Il mio sogno sin da bambino, non appena mi sono accorto di avere due piedi troppo quadrati per fare il calciatore, è stato quello di diventare giornalista sportivo e se sei nato a Bolzano l’hockey su ghiaccio è un approdo quasi naturale. Tanto più che la “passionaccia” mi è arrivata quando avevo 6 anni (Gardena-Bolzano 3-4 con gol-partita di Bellio, non lo dimenticherò mai) e non mi è più andata via. Dopo gli studi superiori, con risultati tra il mediocre e lo scarso (fondamentalmente mi interessava solo scrivere), ho proseguito con l’Università e subito dopo la laurea ho iniziato a bazzicare per le redazioni di quotidiani, tv e radio locali. In realtà l’hockey è solo una parte marginale del mio lavoro (sono redattore presso l’Ufficio stampa della Giunta provinciale), ma nulla mi dà più gioia, dal punto di vista professionale, di un pezzo ben riuscito o di una appassionante radiocronaca del mio sport preferito.

Questo è stato un anno con una bella soddisfazione professionale, mi riferisco al fatto di aver condotto la diretta radiofonica della promozione della Nazionale Italiana.

Un’emozione forte, unica, indescrivibile. Quando c’è di mezzo la nazionale si possono tranquillamente mandare a quel paese aplomb, distacco ed equilibrio, e temo che in quei 56 secondi dell’overtime con l’Ungheria si sia proprio sentito. Tra l’altro è stata una radiocronaca a dir poco sofferta visto che a pochi minuti dall’ingaggio d’inizio l’attrezzatura tecnica mi ha mollato, e sono riuscito a rimediare una soluzione di fortuna solo nel secondo tempo dopo aver fatto qualche collegamento telefonico. Per non parlare dei due tifosi ungheresi che mi urlavano di tutto… ma alla fine, anche se eravamo in 30 contro 10mila, abbiamo vinto noi!

Ci racconti un po’ di te? Quali sono gli scoop giornalistici di cui vai fiero, e c’è qualche notizia che ti penti di aver tentennato a pubblicare e ti sei visto soffiare?

I “buchi”, come si chiamano in gergo tra colleghi, si danno e si prendono, e fanno parte del gioco. In realtà sono fiero del lavoro che faccio soprattutto quando scrivo una bella storia: negli ultimi anni mi vengono in mente Arpad Mihaly che parla della sua infanzia in Romania e dell’adolescenza negli USA, oppure David Beauregard (ex Valpe) che racconta cosa significhi giocare ad hockey con un occhio solo. Poi, come ogni buon giornalista, mi diverto a fare il rompiscatole: il botta e risposta in conferenza stampa con il sindaco di Bolzano sulla polemica per il Palaonda destinato alla Champions League di volley, con lui che alla fine si rifiuta di rilasciare interviste sull’argomento, mi ha fatto andare a dormire con la piacevole sensazione di aver fatto bene il mio lavoro.

Invece sportivamente parlando da tifoso ci puoi dire qualche momento emozionante che ti ha dato l’hockey su ghiaccio? Penso che tu ne abbia tantissimi, cosi come pure di aneddoti curiosi. Puoi “regalare” ai lettori di HockeyTime qualche chicca inedita o quasi?

Da ragazzo ero ovviamente tifoso del Bolzano, e la più grande delusione sportiva della mia vita resta la clamorosa rimonta subita in una gara di finale-scudetto dai Devils : da 1-6 a 7-6 in un tempo. Ho pianto, ma questa volta di gioia, sul pareggio di Zarillo a 12 secondi dalla fine di una semifinale di Alpenliga contro il Graz. E poi c’è la nazionale: la salvezza strappata nel 2006 ai Mondiali di Riga è stata godimento allo stato puro, ma non dimenticherò mai i brividi provati alle Olimpiadi di Torino 2006. Per 60 secondi siamo stati 1-1 con il Canada, in uno stadio completamente tricolore: indimenticabile. Un aneddoto che conoscono in pochi: quest’anno, durante una radiocronaca, ho fatto finire con cinque secondi di anticipo il primo tempo della semifinale di Coppa Italia Bolzano-Renon per un motivo molto banale. Mio figlio di 5 anni, che era in cabina con me, doveva andare in bagno…

Cosa ti piace e cosa non ti piace del piccolo mondo dell’hockey italiano?

Mi piace perchè siamo fondamentalmente una banda di pazzi, e perché è ancora un’ambiente a misura d’uomo. Il bello dell’hockey, al di là dell’aspetto sportivo, è fermarsi a bere una birra con i tifosi e con i giocatori dopo la partita: l’hockey, per come lo vivo io, è una specie di seconda famiglia. Il problema è che sull’altro piatto della bilancia ci sono tante altre cose (troppe) che pesano in maniera quasi uguale: avrei bisogno di un libro per elencarle tutte, le prime che mi vengono in mente sono la cosiddetta “politica dell’orticello” e la mancanza di programmazione. Una parte dei nostri dirigenti non ha realmente a cuore gli interessi del movimento, ma solo i propri o quelli della propria squadra: e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Quanto è difficile chiamarsi Bolognini nel panorama dell’hockey italiano? Deve essere molto difficile dover trattare di uno sport per il quale tuo padre è presidente della Federazione, penso che dover vivere tra deontologia professionale e amor paterno a volte è stressante.

È indubbiamente una presenza ingombrante (in tutti i sensi ?), ed egoisticamente preferirei che il presidente della FISG fosse qualcun altro per non dovermi sempre portare questo peso sulle spalle. Mi sono comunque imposto alcune piccole regole etiche e di comportamento che rendono possibile (almeno credo) la convivenza: tutti gli articoli che riguardano mio padre non li scrivo io ma qualche altro collega della redazione sportiva. Se lui è presente a una conferenza stampa dove ci sono anche io, oltre a non fargli ovviamente domande, faccio in modo che nel pezzo non sia citato, se non in maniera del tutto marginale, e non compaia in foto. Se proprio devo intervistare un “federale”, inoltre, mi rivolgo al segretario generale oppure al responsabile di settore. Al di là di questo, ormai ho imparato a convivere con la situazione, e penso di riuscire in maniera dignitosa a dividere i miei doveri professionali dal naturale rapporto di affetto padre-figlio.

Io penso che per te sia ancor più difficile fare il tuo lavoro, perché anche se probabilmente sarai abituato e non te ne curerai, molte volte devi affrontare il pregiudizio dei tifosi/lettori. Credo di non sbagliare se parlo probabilmente anche di colleghi-giornalisti che pensano che sfrutterai la “parentela” per avere news di prima mano o addirittura scoop.

Fondamentalmente cerco di preoccuparmi il meno possibile di ciò che pensano gli altri. O meglio, chi mi conosce sa che tipo di persona sono e sa come lavoro, chi si “fa i suoi film” evidentemente non mi conosce abbastanza. Detto questo, non nego che alcune battutine o frecciatine, magari anche involontarie, mi diano fastidio, ma so anche che non posso farci nulla. Alcuni pregiudizi me li porterò dietro finchè mio padre ricoprirà il ruolo di presidente della FISG, in qualche modo cercherò di conviverci.

Ed invece ti è mai capitato di non pubblicare news per “amor di famiglia”, oppure sei mai stato criticato dal presidente pubblicando notizie che potevano danneggiare la sua immagine?

Ripeto: se ci sono notizie che riguardano direttamente mio padre delego il compito di occuparsene a qualche collega. Per il resto lui è parecchio abbottonato… nel senso che più di una volta mi è capitato di avere notizie che non conoscevo da altri giornalisti i quali, un po’ imbarazzati, spiegavano di averle ricevute da mio padre. Diciamo che entrambi sappiamo benissimo quali sono i limiti entro i quali possiamo muoverci, fermo restando che quando c’è da criticare la FISG (e purtroppo capita spesso), io non mi sono mai tirato indietro.

Mi immagino un quadretto familiare a cena, chissà quante volte ti ha rimbrottato per il taglio dato ad un articolo, oppure tu che lo rimproveri per alcune dichiarazioni o prese di posizione che non condividi. Quanto sono distante dalla realtà?

Non molto lontano direi… Non sempre (per usare un eufemismo) siamo sulla stessa lunghezza d’onda e capita abbastanza frequentemente di scambiarci qualche critica. Mio padre, inoltre, non ha una grandissima considerazione della categoria dei giornalisti (per usare un altro eufemismo), e devo dire che alcune volte le punzecchiature sono anche piuttosto divertenti.

Ti è mai capitato di dargli consigli o suggerimenti, visto che tu sei più a contatto con la base dei tifosi?

Consigli e suggerimenti no, non mi permetterei mai. Diciamo che ogni tanto mi capita di segnalargli quelli che, a mio modo di vedere, sono errori suoi o della federazione. Comunque non farei cambio con lui per nulla al mondo: fare il giornalista è tremendamente più facile e divertente che gestire una federazione.

Com’è cambiato il “fare informazione” da quando hai iniziato a lavorare ad oggi?

Dal punto di vista tecnico tantissimo. Quando ho iniziato a scrivere i primi pezzi di hockey era ancora normale dettare per telefono la cronaca della partita, ora da questo punto di vista è tutto più semplice. Nei quotidiani locali il problema principale è ora diventato quello dei tempi: l’orario in cui il giornale va in stampa è tremendamente a ridosso delle partite, ed è sempre più difficile riuscire a coniugare velocità e qualità.

Gli esperti non danno più di 10/20 anni all’estinzione della carta stampata. Pensi anche tu che internet sia destinato a soppiantare il cartaceo?

Io non sono così catastrofista, e penso che il piacere “fisico” di sfogliare, toccare, annusare un giornale o una rivista non morirà così facilmente. A patto, però, che la carta stampata sappia interpretare i cambiamenti epocali che stiamo vivendo. Il vantaggio di internet è l’immediatezza, spesso e volentieri il limite è la mancanza di “analisi”. Sull’attualità nuda e cruda i giornali non hanno speranza di reggere il colpo, e ritengo che il futuro, per i media tradizionali, stia nell’approfondimento: bisogna dare al lettore quelle informazioni che non ha già trovato in rete. In questo campo, come in tanti altri settori, l’Italia è purtroppo molto indietro.

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