Anche in un mondo gelido come il ghiaccio e fatto di uomini che si rincorrono coi bastoni in mano prendendosi a cazzotti come moderni gladiatori c’è spazio per le belle favole, storie a lieto fine che sembrerebbero irreali persino in un film, figurarsi in uno sport come l’hockey. L’avevamo visto alle ultime Olimpiadi, quando a mezzo minuto dalla fine il Canada, in finale con gli Stati Uniti, stava portando a casa con un po’ di fatica un oro che, se perso, avrebbe significato lutto nazionale per l’intero paese nonostante il record di primi posti conquistati durante l’intera manifestazione sportiva.
Qualcuno da qualche parte, forse lassù, doveva però aver pensato che così era troppo facile e banale, ci voleva un tocco hollywoodiano con un pizzico di Christian Andersen (no, non è un prospetto per il prossimo draft); ma sì, dai, facciamo pareggiare gli yankees a pochi secondi dalla fine, e poi che sia il buon Crosby a segnare in overtime il gol della vittoria, il fatidico Golden Goal, come urlato con enfasi dal telecronista della TSN mentre Sid the Kid veniva sommerso da una ventina di compagni assatanati. Così fu, dunque, e al termine di questa ormai celebre favola nordica vissero tutti felici e contenti, perlomeno al di sopra del confine fra U.S.A. e Canada.
Okay, overtime, e adesso? Beh, appena Savard scende in pista con la sua linea d’attacco gli facciamo arrivare sulla stecca un puck vagante e poi via, ecco un bel raggio laser! E guarda un po’, accipicchia, è proprio quello che è successo! Il puck arriva dalle sue parti, in posizione un po’ defilata, e lui mostra quanto aspettasse quel momento, quanto ci tenesse, quanta voglia di giocare e vincere potesse essere repressa in un solo corpo umano nel giro di due mesi. Il puck non fa in tempo ad arrivare a un metro da lui, che Savard l’ha già sparato nell’angolino alto più vicino, sopra la spalla del povero Boucher.
Avete visto la faccia di Savard subito dopo il suo gol? Ci teneva. Da morire. Non osavo immaginare quali pensieri gli fossero passati per la testa durante quel periodo lontano dal rink, mentre i suoi compagni lottavano disperatamente per un posto nei playoff, ma di certo, nel vederlo dare di matto urlando, sfogando tutta la propria gioia e picchiando ripetutamente il bastone contro il ghiaccio, potevo avere una vaga di cosa pensasse in quel momento. Ecco, quello sì che era il giusto finale della favola vissuta sabato scorso al TD Garden di Boston.
Bentornato, Marc. Giusto in tempo per la festa.