Rick Cornacchia: “La mia carriera di giocatore e allenatore”

Rick Cornacchia: “La mia carriera di giocatore e allenatore”

di Tony Puma e Fiorenza Zanchin

Presentato alla stampa italiana l’11 settembre 2008 per il coach della Nazionale Rick Cornacchia l’Italia non era una novità, sia perché nel Bel Paese c’è nato (il 6 febbraio 1951 a Monteleone di Puglia), sia perché prima giocò nelle fila dell’Alleghe nella stagione 1975/76, ai quei tempi, targata Luxottica, poi per aver ricoperto il ruolo di General Manager e head coach delle Civette dal 1994 al 1996.

Che giocatore era Rick Cornacchia?

Era un tipo di giocatore coriaceo con un gioco fisico; ero difensore, ma non ho segnato molti goal. Ho giocato tante partite nella mia carriera dando sempre il massimo.

Chi ti ha contattato per giocare nell’Alleghe nel 1975?

Avevo un agente, Bruno Turina, che mi portò ad Alleghe, fui felice della scelta; Alleghe fu un posto divertente dove giocare; noi eravamo uno splendido gruppo di ragazzi che andava d’accordo; fu favoloso per la mia esperienza.

Arrivasti in Italia a 23 anni insieme a Giulio Francella (attaccante). In quel Alleghe il coach (Ciril Klinar) e gli stranieri erano jugoslavi (il portiere Rudy Knez e l’attaccante Rudy Hiti).  Fu difficile adattarsi per voi di scuola canadese alle idee dell’allenatore?

No, fu un passaggio semplice, anche se le piste italiane, dalle dimensioni olimpiche, richiesero un cambio del mio modo di giocare. L’allenatore era una brava persona, fu abbastanza facile adattarmi alle sue idee.

Nella prima fase della stagione 1975/76 l’Alleghe raggiunse il primo posto solitario per poi chiudere al quarto posto a due punti dalla prima (il Gardena, ndr). Nella seconda fase, quella decisiva per la conquista dello scudetto i biancorossi incamerarono solo 3 vittorie in dodici gare chiudendo al quarto posto. Cosa determinò il calo di prestazioni?

Subimmo diversi guai fisici durante la seconda fase; ad esempio Rudy Hiti, un ottimo straniero, riportò una frattura allo zigomo. Forse fummo sopravvalutati durante la prima fase e tornammo alla realtà nella seconda parte.

Com’erano i derby contro il Cortina del suo attuale assistant coach Fabio Polloni?

Molto molto duri, c’era accondiscendenza da parte degli arbitri nei loro confronti (Cornacchia ride), spesso con Fabio ci scherziamo sopra. Erano derby molto combattuti ed emozionanti con molti scontri al limite, avevano una squadra molto competitiva e praticavamo un gioco basato sulla fisicità.

C’era timore reverenziale nei confronti di una squadra che negli ultimi diciannove anni aveva vinto quattordici titoli?

Non molto, noi scendavamo sul ghiaccio con la convinzione di voler giocare meglio di loro combattendo per tutta la gara; in particolar modo mi ricordo che una volta a Cortina abbiamo giocato quasi tutta la partita in cinque contro tre, uscendo sconfitti con un solo goal di scarto.

Non hai mai vestito la maglia della Nazionale, c’è stato rammarico per questo?

A quei tempi in Italia cambiarono le regole sugli oriundi e trovai strano che potesse succedere, avevo un contratto ancora per un anno con l’Alleghe e ciò mi fece sperare di vestire la maglia della Nazionale, ma non successe; il cambio delle regole che prevedevano un solo oriundo per squadra non mi permise di tornare in Italia e ambire alla la maglia azzurra. Per me ora è un privilegio allenare la Nazionale, soprattutto dopo il successo dell’anno scorso.

Nel 1980, a 28 anni, hai intrapreso la carriera di allenatore guidando il St. Michael’s Buzzers, nella Ontario Hockey League Jr. B. Quale fu il motivo che ti portò a questa scelta ad un’età nella quale solitamente uno sportivo pensa a giocare il più possibile?

Veramente iniziai la mia carriera di allenatore quando ero all’Università dove, oltre a studiare, giocavo; mi assunsero come allenatore e fu un successo, perché la squadra guadagnò mille dollari che erano più che sufficienti per bere una birra. Iniziai ad allenare nella scuola superiore nella quale ero insegnante, una delle migliori di Toronto. Il mio stipendio consisteva nel prestigio di poter allenare quella squadra, ecco come ho iniziato.

Nei primi undici anni arrivano numerosi successi sia con i Buzzers che con gli Oshawa Generals nella OHL Jr. A. Qual è il successo a cui sei più affezionato?

Ogni squadra con la quale vinci è sempre speciale, soprattutto quando si è campioni di una Lega Junior B a 21 anni, quando si vince la Memorial Cup per la prima volta a 22-24 anni, oppure vincere un Mondiale. Ecco questi sono i momenti da ricordare. Sicuramente vincere la Memorial Cup che è il trofeo più difficile da vincere in Canada è molto speciale: con gli Oshawa Generals perdemmo la finale nel 1987 (6-2 contro i Medicine Hat Tigers, ndr), ma vincemmo nel 1990 al termine di un doppio supplementare (4-3 contro i Kitchener Rangers, ndr). Grandi emozioni per una grande vittoria.

Nel 1992 sei nominato head coach della Nazionale canadese Under 20. Ai tuoi ordini per i mondiali di categoria in programma in Germania c’erano giocatori del calibro di Eric Lindros, Paul Kariya, Scott Niedermayer, ma la squadra arrivo sesta su otto. Cosa non funzionò?

Incontrammo molte difficoltà, comprese quelle che interessarono i due portieri che non stavano bene fisicamente al tal punto di dover convocare Chris Osgood. Alcune volte l’intesa era buona, come il gruppo. Con il solo talento non si vince, ma solo con l’intesa, il gruppo. E come la vittoria nella Memorial Cup, tutta la squadra era compatta e collaborativa, esattamente come l’anno scorso, quando abbiamo vinto i Mondiali di Divisione I. Se hai queste qualità non servono grandi campioni per vincere.

Dal 1994 al 1996 sei General Manager e allenatore dell’Alleghe. Nelle due stagioni la squadra agordina non superò i quarti di finale, eliminata dal Varese e dal Bolzano. Ci racconti questa tua esperienza?

Fu un’esperienza incredibile, non per me, ma per la mia famiglia e spesso ne parliamo ancora. Fu una grande opportunità per poter allenare e vivere in Italia. La squadra, soprattutto il primo anno, era un gruppo di ragazzi straordinari; di certo non avevamo una squadra imbattibile, in porta avevamo un’eccezionale Dave Delfino che ci fece vincere tante partite. Fecemmo il massimo che potevamo fare con una squadra di giovani. Come allenatore ero orgoglioso di aver fatto maturare tanti giocatore che ancora oggi giocano come per esempio Fabrizio Fontanive, Manuel De Toni, Daniele Veggiato e altri.

Lasciato Alleghe sei stato Mentor coach in Sud Corea e in Messico e allenatore dei Markham Waxers con i quali nel 2008 hai raggiunto la finale di Lega, poi di nuovo Italia. Quanto tempo hai impiegato a dire sì alla proposta della Federazione per guidare gli azzurri?

Non c’ho impiegato molto. Veramente Micky Goulet mi chiamò e mi chiese se ero interessato e gli dissi di sì, ma ovviamente dipendeva dall’impegno che avrei dovuto prestare, perché ho la mia attività in Canada e di certo finanziariamente non posso vivere solo con quello che guadagno allenando l’Italia; sono consapevole di essere in una posizione di prestigio, ma nel frattempo devo essere sicuro di far collimare i miei impegni. E quando la Federazione mi chiamò dandomi i loro programmi accettai subito.  

E fu subito promozione. Possiamo affermare che Cornacchia è un allenatore vincente?

Non è solo Cornacchia, ma è tutto lo staff e il gruppo di giocatori. Non si può ottenere credibilità da solo, si ha bisogno di uno staff vincente come Fabio Polloni, mio vice e grande persona, gli attrezzisti, il massaggiatore, il dottore e il Team Manager Gianfranco Talamini che svolge un lavoro straordinario.
Alla fine non è importante quale coach tu sia, se non hai i giocatori e il gruppo sei uno dei tanti. L’anno scorso fummo fortunati, perché avemmo un notevole gruppo di giocatori che lavorarono duro e che volevano essere vincenti. Nelle ultime gare nonostante avessimo incontrato più difficoltà degli altri, cercammo di fare il possibile per vincere.

Si ringrazia Rick Cornacchia e la Federazione Italiana Sport del Ghiaccio per la gentile collaborazione.

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