Intervista a Renzo Gilodi, giornalista di Tuttosport

Intervista a Renzo Gilodi, giornalista di Tuttosport

HT: Alla luce dei risultati finali di questo campionato un suo commento sulla stagione appena conclusa ed una valutazione qualitativa di quanto espresso sul ghiaccio.

RG: Uno dei campionati tecnicamente più alti visti in Italia, come non si vedeva da fine anni ’80 – prima metà anni ’90. Alto per la classe di certe stars arrivate sui nostri pack, ovviamente, ma anche per le proposte di sistema-hockey molto moderne, aggiornate su orizzonte internazionale, creative, e ricche di differenziazione concettuale, che da alcuni coach (Rolf Nilsson, Tony Martino, Riccardo Fuhrer, Doug McKay; oltre, è chiaro, Insam) ci sono state offerte, avendo naturalmente a disposizione sul ghiaccio gente di un livello tale da saperle valorizzare ed esaltare. Una stagione che ha fatto solo del gran bene all’hockey italiano, ha creato immagine, ha promosso entusiasmi e innescato bellezza tecnica e atletica. Formula a 10 squadre probabilmente ottimale, benissimo i playoff “best of seven”, livello di un campionato che tende ad avvicinarsi ad una DEL. Con una finale Milano-Cortina che ha espresso il meglio: sul ghiaccio, alla transenna, come pubblico, anche come organizzazione e gestione societarie.

HT: Vorremmo un suo giudizio sulle singole squadre che hanno dato vita a questo campionato.

RG: Milano ha trovato la continuità a livello superiore di un signor portiere che ha dovuto solo concedere qualcosa all’inizio all’ambientamento (e non dimentichiamoci che Magnus Eriksson è stato in nazionale Tre Kronor backup di Tommy Salo ai Mondiali del ’98, con la Svezia iridata, e del ’99, con la Svezia medaglia di bronzo); ha trovato una backline formidabile vera fonte continua di gioco (con un Helfer degno dei ghiacci nordamericani), di opportunità finalizzatrici, di occasioni da catapultare nel traffico; e ha trovato in avanti Sundstrom uomo eternamente al posto giusto al momento giusto e capace di fare la cosa essenzialmente giusta, Adams straordinario checker lavoratore per la squadra, Di Maio cecchino filante, Tkaczuk e Savoia vere rivelazioni per solidità e produttività a tutto campo. Quattro blocchi, con il lusso di permettersi un Rickmo, capocannoniere 2003/2004, in terza o quarta linea. Onore a Insam, ma onore anche e sempre alla lungimiranza operativa di quel grande general manager che è Ico Migliore. Certo, il Cortina di Nilsson, a due sole linee veramente competitive (ma dietro occorre sottolineare la crescita di giovani molto ma molto interessanti, Francesco Adami, Zandonella), è piaciuto parecchio, forse anche di più. Con la “stella cometa del Minnesota” Matt Cullen, De Bettin ha fatto il suo miglior campionato; la linea svedese con il motore Pettersson è da ricordare negli annali; l’arioso, offensivo, “sacchiano”, esteticamente bellissimo gioco cortinese illuminato da Cullen resta il “top” del campionato. Il Bolzano ha pagato proprio al momento cruciale il blitz interno destinato a “dimissionare” Fuhrer che aveva dedicato sin dall’inizio tutto il suo studio alla progressiva messa a punto di un gioco decisamente alternativo capace di andare a battere il sistema del Milano. Asiago in stagione di transizione, debole di direzione in panchina, fortunato (Fata) e sfortunato (Dandenault, Quintal) con gli NHLers, sempre incerto nel ruolo tra i pali. Guidato da un grande coach come Tony Martino, il Varese era da prime quattro, ha mancato l’obiettivo nei quarti quando aveva la serie col Bolzano in mano, panchina corta (specie in difesa) decisiva. Ma l’impressione è stata per lungo tempo dei Mastini Varese come vera credibilissima mina vagante del campionato. C’è mancato proprio poco che si avverasse. Sisca e Pittis le rivelazioni, speriamo azzurrabili. Fassa opaco, spesso col problema portiere che tante volte ha fatto disperare Ivany. Ma per me, il miglior giocatore italiano quest’anno è stato (con il bolzanino Enrico Dorigatti) proprio il fassano Luca Felicetti (e regolarmente né Luca né Enrico sono stati chiamati in strameritato azzurro da Goulet). Complimenti ancora una volta al Renon del presidente Rottensteiner, società che definimmo “il Chievo dell’hockey italiano”: organizzazione e gestione societaria ammirevole, scelte tecniche sempre mirate e azzeccate, la soddisfazione di essere andati all’Olimpico di Cortina nei playoff a darne 3 (a zero) a Cullen e compagni, e alla fine la ciliegina sulla torta (che la società ha potuto permettersi di regalare ai suoi tifosi) di un fuoriclasse come Ryan Malone. Con la solidità dei Thornton, Forget, Gschliesser, Bona, Rebolj (e anche qui un giovane talento emergente come Armin Hofer), il Brunico ValPusteria s’è salvato alla fine con una certa tranquillità mostrando di valere anche qualcosa di più in classifica. Alleghe ha patito quest’anno una montagna di crepe, a partire dagli stranieri sbagliati e dai problemi di Lino De Toni, ma il gruppo storico degli italiani è sempre di tutto valore, ricordiamoci che qui c’era gente finalista per lo scudetto con Milano soltanto nel 2002. Torino è stato il vero, ripetuto flop: prima di tutto flop strutturale, organizzativo, gestionale, di cassa; da qui, di conseguenza, la forzata modestia tecnica mai in grado di competere in A. Una società, e quindi una squadra, non da massima serie, già retrocessa e ripescata e di nuovo retrocessa: e adesso vedrete che, sempre con la scusa delle Olimpiadi, di Torino olimpica eccetera eccetera, si andrà a finire ad un nuovo ripescaggio. Da subodorare, se le strutture saranno le stesse, una ennesima retrocessione, per poi lasciare a Torino post-olimpica il deserto. Il tutto mentre l’imprenditore torinese Claudio Gabriele Belforte, presidente dell’All Stars Piemonte, con alle spalle importanti sponsor americani, continua a chiedere alla Federazione, inascoltato e senza neanche ricevere risposte, di poter fare la A.

HT: Quali sono secondo lei i giocatori che valuta come i migliori della stagione e che hanno espresso il miglior hockey?

RG: Cullen, Pettersson, De Bettin,Tkaczuk, Sundstrom, Di Maio, Savard, Helfer, Savoia, i goalie Maund e Eriksson, Blanchard, Ciglenecki, Fata, Sisca, Forget, Luca Felicetti, Luca Ansoldi.

HT: Quale sarà secondo lei lo scenario che si presenterà all’avvio del prossimo campionato e quale dobrebbe essere la soluzione ideale?

RG: Spero si riconfermi lo scenario a 10 squadre; verrebbe avanzata anche una ipotesi a 8, accettabile solo nella prospettiva sicura di una vera, reale super-concentrazione di valori omogenei e d’un certo livello, altrimenti va benissimo a 10, la formula che più dovrebbe avvicinarsi all’ideale (come nel rugby). Tecnicamente, il motivo al momento più ghiotto è la prospettiva che si sta ventilando di un forte investimento dello sponsor del Cortina per puntare allo scudetto. Non per niente, come ha riferito il nuovo responsabile hockey federale Franz Sinn dopo i suoi primi colloqui con le società, proprio dal Cortina partirebbe la proposta per la liberalizzazione degli stranieri.

HT: Vorremmo un suo commento alle prime dichiarazioni del Consigliere federale Settore Hockey, Franz Sinn, rilasciate alla radio e presenti sul nostro sito.

RG: Ovviamente giusta la filosofia operativa di fondo impostata sulle due linee basilari del controllo, o meglio alla razionalizzazione dei costi del campionato (perché il movimento non risalti in aria come dopo le “overdose” dei primi anni ’90), e della difesa e rilancio di valorizzazione del patrimonio italiano e giovanile. Urgente ormai da anni un rilancio ad ampio raggio della politica dei vivai, massimamente urgente adesso che si va verso la necessaria dichiarazione di 10 italiani in roster o del 50% di italiani che tuttavia non si capisce ancora bene se il Coni vorrà considerare nel roster di un club per ogni singolo match o più generalmente nell’organico (proposte comunque oggi come oggi non così semplici da realizzare, proprio quantitativamente prima ancora che qualitativamente). Non è del tutto chiara l’idea di Sinn sugli stranieri extracomunitari: da una parte parla delle esigenze di certe società da salvaguardare anche per i forti investimenti che queste già hanno compiuto (esigenze del resto da difendere, pur sempre in un quadro di razionale operatività di gestione, se non si vuole far abortire una imprescindibile idea di sviluppo e moderna crescita del movimento, anche e soprattuttto in termini veramente professionistici e imprenditoriali); dall’altra parte Sinn darebbe al tempo stesso l’impressione di puntare comunque ad un forte contingentamento degli stranieri, ad una decisa limitazione. Che sarebbe una chiusura in senso pauperistico, asfittico e localistico di cui proprio l’hockey italiano avrebbe bisogno solo per rinchiudersi per sempre nel limbo. Molto corretto d’altra parte l’aver messo il dito sulla piaga, da sanare con normative chiare e definitive, non “interpretabili”, dei giocatori nelle varie squadre, come ha detto Sinn, “che quest’anno andavano e venivano come in un porto di mare” e delle fisionomie plurime assunte da certe squadre nel corso del campionato. Tutta la materia della giustizia sportiva e delle prove TV è bene che Sinn sia consapevole quanto sia da affrontare e chiarire bene, sulla base anche della rapidità delle decisioni, perché potenziale polveriera. Una cosa non m’è piaciuta per niente: Sinn riconosce che “purtroppo l’hockey in Italia è giocato in un’area ristrettissima”, dice che occorre conquistare o recuperare piazze nuove o storiche, poi come conquista o recupero cita Como, Feltre, Aosta e dice invece che non bisogna “sognare” di conquistare Roma, Palermo, Bologna, Firenze. Accidenti: a Roma, a Catania, a Palermo, a Bari, a Bologna si costruiscono stadi del ghiaccio che in tante piazze e piazzuole sia pure storiche del nord se li sognano; a Roma, a Palermo, a Catania, a Bologna il movimento-hockey sta venendo fuori, ci sono squadre costrette ad operare a livelli di C interregionale o amatoriale e che cominciano a domandare con sacrosanta insistenza ben maggiore partecipazione, stanno nascendo entusiasmi e passioni che sarebbero oro, e l’hockey italiano – mai veramente nazionale proprio perché da sempre localisticamente rinchiuso – snobba queste possibilità di “conquista”? Con tutto il rispetto per Feltre o Como, pensiamo che cosa vorrebbe dire conquistare all’hockey ghiaccio la passione di Roma e del Meridione? Questa da parte della Federazione dovrebbe essere, ma già da tempo, una linea politica operativa prioritaria, direi vitale.

HT: Mercato: indipendentemente dai nomi in quale direzione si dovranno muovere le singole società per prepararsi alla prossima stagione?

RG: Il mercato dei comunitari – ancor più se si attuerà da oggi la direttiva Coni in merito all’apertura verso Cekia, Slovacchia, Lettonia e gli altri Paesi ultimi entrati nella UE – è chiaramente l’optimum, sul piano tecnico in relazione a quello economico. Poi oculata scelta di oriundi, validi e non bufale che sono tante (penso ai fratelli Sarno rifilati al Torino e rispediti a Springfield ancora prima dell’inizio del campionato, pizzaioli più che hockeysti). E spazio crescente agli italiani (che ahimé, da serie A, o almeno da A come quella appena trascorsa, sono pochi e costano incredibilmente tanto): la normativa Coni del 50% di italiani in roster è benemerita, anche se noi in Italia con la scarsa politica dei vivai sviluppata da troppe società ci troviamo, in fatto di italiani da gettare alla massima ribalta incrementando la A, con autentica penuria di “materiale umano” di qualità. Il panorama abbastanza deprimente è del resto bene riassunto dalle nazionali giovanili: quest’anno ai Mondiali di categoria gli staff tecnici italiani ci hanno fatto “guadagnare” una retrocessione in C (under 18) e una sudatissima salvezza per l’amor di Dio in B (under 20); per i raduni, gli stages e poi gli appuntamenti internazionali pare che la regola delle selezioni sia “a priori” (o “a prescindere”, come direbbe Totò); ci sono numeri chiusi di gente che inizia il filotto del “giro azzurro” (indipendentemente dalle prestazioni singole con le squadre di club nei campionati di categoria) dalla under 12 e va garantita fino alla under 20; tanti i ragazzi cui mai viene data neppure una possibilità di test; e certe non-presenze o cancellazioni sono dovute solo sempre a motivi scolastici?

HT: Capitolo nazionale; come giudica i risultati appena ottenuti ai mondiali?

RG: A Goulet era stato chiesto di vincere questo Mondiale, viceversa molto probabilmente sarebbe saltato. Goulet l’ha vinto, con una nazionale che, appena svelata, aveva sollevato molte perplessità specie su certi nomi di oriundi. Abbiamo vinto le due partite più pesanti, decisive: con l’Estonia e con la Francia per fortuna priva in porta di Cristobal Huet. Abbiamo giocato una buonissima difesa, giocato bene gli special-teams, finalmente segnato in buona percentuale con l’uomo in più. Goulet sta dimostrando di essere quello con cui si era annunciato: un severo teorico dalle conseguenti applicazioni, un acuto lavoratore sui giovani ed anche un giusto psicologo, visto che il clima creatosi nel gruppo del Blue Team (anche grazie a tutto lo staff tecnico, da Polloni a Ivany a Jim Corsi allenatore dei portieri) è davvero molto buono. Piedi per terra, comunque. Voglio sperare che il Blue Team per le Olimpiadi sia ancora in fieri, in cantiere, e quindi che sarà arricchito rispetto a quello di Eindhoven (è chiaro che l’ideale, ma è un’utopia, sarebbe poter fare un colpo di mano e buttare dentro i Di Maio, i Savoia, i Sisca, gli Aquino, qualche altro italo-canadese magari NHL che mai abbia indossato la maglia del Canada). Dicono in Federazione: obiettivo a Torino 2006 è di fare bella figura. Che significa fare bella figura? Risposta: entrare nelle otto, nei quarti di finale. Considerato il girone olimpico dell’Italia, e considerati fuori portata Canada, Repubblica Ceca e Finlandia, approdare nelle otto per fare bella figura vorrà allora dire battere Germania e Svizzera…

Ringraziamo Renzo Gilodi per la disponibilità

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